Nozze all’italiana
di Francesco Lora
Mozart al Teatro Regio di Parma: si rinnovano i dubbi sull’allestimento firmato da Martone e nascono quelli sulla direzione di Beltrami, irta di vezzi pseudofilologici e non aiutata dalla modesta orchestra. Una compagnia di belcantisti madrelingua dà il colpo d’ala allo spettacolo.
PARMA, 17 gennaio 2016 – Mettere in scena le tre opere di Wolfgang Amadé Mozart e Lorenzo Da Ponte, in stagioni consecutive e con un fil rouge a percorrerle, è idea ordinaria dei teatri d’opera nel mondo. Tra tanti, forse nessuno si è distinto come il San Carlo di Napoli, quando tra la fine degli scorsi anni ’90 e l’inizio del nuovo millennio ha affidato a Mario Martone la regìa dei tre lavori. Ne sono venuti fuori un Così fan tutte analitico quanto quello di Roberto De Simone, e un Don Giovanni tanto potente nel simbolo quanto rifinito nella pratica scenica. Meno bene è andato alle sole Nozze di Figaro, ultima opera affrontata e in aumentata aspettativa, spettacolo invece privo di un’idea che non sia il semplice selezionare didascalie e pretenderne la realizzazione dal talento personale degli attori. L’impianto scenografico stesso, progettato da Sergio Tramonti, con le due scalinate una in faccia all’altra, è non più che un fondale irrelato, un contenitore di vane controscene, dove lo spettatore deve troppo spesso immaginare ciò che non si vede: eppure lo spazio è ingombro d’arredi. Così come i costumi di Ursula Patzak non raccontano il ruolo e il carattere dei personaggi, il divario cetuale, lo scherzo dei tanti travestimenti. È un allestimento con grandi firme, ma mancato rispetto agli altri due. Ciò non toglie che se ne abbiano regolari riprese, l’ultima delle quali al Teatro Regio di Parma, per quattro recite dal 12 al 19 gennaio (nel programma di sala, note di regìa senza faro confermano i dubbi).
Al pallore registico si aggiunge, lì, quello direttoriale. Sul podio v’è Matteo Beltrami, promettente concertatore tradito dalla pochezza tecnica dell’Orchestra Filarmonica Italiana, affatto priva di nerbo e tutta espressa in un flou indistinto, nonché dall’attrattiva ingannevole di vezzi pseudofilologici. Lo scopo di questi ultimi, infatti, non è riavvicinare l’ascolto alla volontà del compositore, bensì collezionare una serie di trovate o abbagli che diano l’impressione del nuovo, del diverso, dell’impensato. Una volta di più, è il fàmolo strano applicato al teatro d’opera, ma non dalla parte del regista. Si ha così un clavicembalo scatenato che vorrebbe rievocare l’uso storico dello strumento accompagnatore, il quale non ha una parte scritta – la civiltà del basso continuo era allora al tramonto – ma la improvvisa provvedendo al pieno armonico. Bene. Nel 1786, però, un fortepiano era già preferito al clavicembalo, non avrebbe agito con tanta irregolarità e disturbo, non sarebbe rimasto sguarnito del violoncello nei recitativi secchi. Sacrosanta è poi la volontà di presentare linee vocali ornate rispetto alla carta: ma le appoggiature paiono disseminate a caso e le variazioni sono tanto timide e impacciate quanto povere di motivazione e gusto. Rimane invece – e su questo si tornerà – una rara attenzione verso la parola scenica e il dialogo teatrale. Una direzione, in ultima istanza, non erudita al cospetto di un testo letterario e musicale dottissimo, ma almeno sinceramente operosa e sensibile.
A dare il colpo d’ala allo spettacolo è la compagnia di canto, che ha dalla sua la più autorevole referenza per questo repertorio: tutti gli interpreti sono italiani per nascita, scuola e istinto, e chi non lo è ha appreso al pari degli altri una lezione ignota ai presunti specialisti non madrelingua di Glyndebourne e Salisburgo. Via alle danze. La Susanna di Laura Giordano è un piccolo capolavoro di maturata esperienza e freschezza intatta, con quel timbro giovanile e omogeneo, da sopra a sotto il rigo, e con quella capacità di fraseggiare in modo non necessariamente forbito, ma sempre naturale, ironico, semplice, imitato a partire da una vita quotidiana condotta con arguzia. È il motore di un gioco attoriale pieno di complicità. Come Contessa d’Almaviva, Eva Mei reca invece un canto fané, dove il soprano leggero non ha più la facilità estensiva d’un tempo senza per questo aver acquisito spessore, e dove l’escursione dinamica e i fiati si sono ristretti, accorciati e affiochiti; ma l’intelligenza dell’attrice e la finezza della musicista sono ferme al loro posto, dando luogo a un personaggio nobile benché in declino, nel quale a tratti si fa ancora largo la vulcanica Rosina che fu. Eccellente il Conte d’Almaviva di Roberto De Candia, sempre identico a sé stesso nella bontà tecnica e nel sano smalto, e attore anch’egli sottile, mai incline ai toni violenti, volgari e rabbiosi da altri per tradizione profusi nella parte: è un artista solido che cerca l’uomo anziché lo stereotipo.
Simon Orfila, come Figaro, è invece l’eccezione che conferma la regola: spagnolo ambientato nel repertorio italiano, che ben conosce, egli non condivide però con gli altri la scioltezza nel recitativo, lo scambio alla pari nelle battute, il gioco espressivo flesso lungo innumerevoli e spontanee tinte intermedie anziché tra i poli fissi del bianco e del nero; è un interprete di vaglia nel mercato internazionale, ma la simpatia sa di artefazione, lo zelo sa di tecnicismo, il materiale si sta facendo viepiù ruvido. In bella forma Laura Polverelli, curiosamente più spigliata nella tessitura sopranile di Cherubino che in quella contraltile – e a lei più congeniale – di parti rossiniane affrontate anche di recente. Solido mestiere nel Don Bartolo di Francesco Milanese (troppo giovanile nell’aspetto del vecchio medico: ma a ciò dovrebbe ovviare il costumista), nel Don Basilio di Matteo Macchioni e nel Don Curzio di Ugo Tarquini (con petulanza e balbuzie a posto, rispettivamente e secondo copione), nonché nel puntuale Antonio di Carlo Checchi (vera filologia sarebbe stato fargli cantare ‘garofani’ con accento piano anziché sdrucciolo: un refuso d’autore) e nella Barbarina insieme tenera e piccante di Giulia Bolcato (una giovane da tenere d’occhio per radiosa musicalità). Magnifica la Marcellina di Marigona Qerkezi, già ascoltata pochi mesi or sono nei teatri lombardi e nella stessa parte: personaggio vivo, comico, spiritoso senza eccessi, con la sorpresa finale di un’aria di sorbetto con coloratura fluida e brillante.