L’Ape musicale

rivista di musica, arti, cultura

 

Rossini e il Musico

 di Roberta Pedrotti

G. Rossini

arie da Demetrio e Polibio, Matilde di Shabran, Adelaide di Borgogna, Tancredi, Semiramide, Eduardo e Cristina

controtenore Franco Fagioli

coro e orchestra Armonia Atenea

direttore George Petrou

CD Deutsche Grammophon 4795681 GH, 2016

Un divo ha ben diritto di concedersi uno sfizio, e Franco Fagioli è sicuramente un divo nell’attuale firmamento degli emuli, per sola virtù tecnica, di maschi soprani e contralti per virtù anche chirurgica. Fama tutta meritata, peraltro, la sua, giacché il controtenore (così definito nelle note del CD) argentino può vantare coloratura agguerritissima e mordente, estensione ragguardevolissima con acuti sfavillanti e gravi vellutati, bella musicalità, gusto, buon dominio di pronuncia e prosodia italiane, qualità timbrica superiore alla media. Dunque, venga pure lo sfizio rossiniano, comprensibile per pura evidenza estetica (chi mai, per di più cantando in quel registro, potrebbe resistere alla bellezza assoluta di Tancredi, Arsace, Malcolm?) come per il personale percorso biografico di Fagioli.

Nato in un paese in cui ancora non si era sviluppata una tradizione, anche didattica, nel repertorio barocco, il Nostro ebbe come primo amore e primo oggetto di studio il belcanto ottocentesco. Incidere ora una raccolta rossiniana rappresenta, dunque, il coronamento di una passione, un ritorno e un omaggio alle proprie origini artistiche. Il programma, peraltro, è pensato proprio con l’ardore di chi è cresciuto amando l’opera all’ombra della Rossini Renaissance ed è ben disposto a sacrificare l’arcinota "Di tanti palpiti" alla suggestione dell’alternativa “Dolci d’amor parole”, con violino obbligato, e, evidentemente, s’infiamma per la riscoperta di Matilde di Shabran, con l’involo prezioso di “Ah, perché, perché la morte”. Lo possiamo ben capire, perché la parte di Edoardo Lopez è una gioia anche per chi deve limitarsi ad abbozzarla solo sotto la doccia, preferendola sovente a “Una voce poco fa”. Al di là dello spirito attento dell’amatore rossiniano e alla ricerca di una scaletta non scontata, bisogna anche considerare che la maggior parte dei brani scelti presenta un richiamo classico, una patina malinconica, un tipo di affetto struttura e coloratura meglio associabili alla vocalità di Fagioli, che, in sintesi, privilegia qui il giovanile Demetrio e Polibio sul sesto grado drammaturgico e virtuosistico della Gran Scena di Falliero, la cavalleresca regalità di Ottone al pathos protoromantico di Malcolm, l’amorosa cavatina di Arsace alla sua traumatica Gran Scena, sempre in quel monumento all'ideale classico che è Semiramide. Svicola confronti diretti troppo ingombranti, ritaglia l’ambito estetico a lui più confacente, si gode pagine sublimi. Possiamo in qualche modo dargli torto? No. Possiamo negare la piacevolezza di un disco ben cantato e interpretato con eleganza e ardente empatia? Neppure.

Insomma, viene spontaneo identificarsi in Franco Fagioli, sposare la sua causa, apprezzare anche la sua coerenza stilistica, l’impegno nell’evocare un canto ideale che consiste anche nell’androginia vocale. Lo sfizio del divo è, insomma, lo sfizio di un artista, di un artista intelligente, colto, appassionato, preparato e talentuoso. Il suo ambito d'elezione resta inequivocabilmente quello del barocco e dei ruoli pensati per interpreti che uniscano aspetto maschile e voce acuta in varie sfumature d'androginia. Tuttavia non bisogna dimenticare che Rossini scrisse due ruoli per l'ultimo grande divo castrato Giovan Battista Velluti, Arsace in Aureliano in Palmira (ottimamente reso da Fagioli a Martina Franca) e Alceo nella cantata Il vero omaggio, né si trovò al culmine della sua esperienza napoletana a comporre nuovamente per un evirato cantore, Moisè Tarquinio, la sua Messa di Gloria, allorché dal 1815 il restaurato re borbonico Ferdinando aveva bandito le donne dalla Cappella Palatina. Tarquinio, peraltro, in concerto amò eseguire anche arie dalla Donna del lago, che sulle scene non gli era possibile affrontare. 

Premesso che il moderno contraltista non è l’erede naturale, o il surrogato coatto, del castrato in termini strettamente musicali e timbrici, ma perché l'impiego, antico o moderno, di uomini con voce acuta comporta uno straniamento, uno stupore, un'eccezionalità proprie dell'estetica sei e settecentesca (come di alcuni lavori dell'ultimo secolo), la sensibilità del primo Ottocento dall'ambiguità barocca mutua, viceversa, il gusto per l'androginia vocale in un'interprete femminile, un gusto che andrà sfumandosi riducendo i ruoli en travesti sempre più a paggi e fanciulli, limitando estensione e contrasti timbrici. A questo contesto non si sottrae Rossini, che pure evoca più volte il nome del castrato come emblema di un'ideale e idealizzata età dell'oro del "cantar che nell'anima si sente": quanto invoca come interpreti della Petite Messe Solennelle "cantori dei tre sessi, uomini donne e castrati" porta all'estremo consapevolmente irrealistico il suo atteggiamento nostalgico, dipinge un quadro estetico che non ha nessuna verosimile conseguenza pratica (un coro di castrati nel 1863! In Francia, dove non erano popolari nemmeno cent'anni prima, e da parte di un compositore la cui patria, fresca d'Unità, aveva esteso il divieto di mutilazione a tutto il territorio!). Difficile pensare che l'utopia rossiniana non possa concretizzarsi che in una voce naturalmente femminile, in un corpo femminile che all'occorrenza vesta abiti, nomi, atteggiamenti maschili: insomma, in un altro grado di ambiguità e astrazione. 

Se, poi, l'uomo Franco Fagioli nel XXI secolo come l'uomo Moisé Tarquinio nel XIX (in diverse condizioni fisiche, ma equiparabili per aspetto e registro) possono cantare bene e dar senso artistico alle loro interpretazioni rossiniane, ben venga: non vi sarà mai dogma nell'arte e nel teatro che possa impedire a priori un esperimento, quando ben ponderato e quando il risultato possa essere convincente o quantomeno intrigante, sì da sollevare dibattiti non effimeri. 

Lasciateci dunque proclamare la legittimità e la piacevolezza del CD ma anche la perplessità non dissipata per il prossimo debutto teatrale di Fagioli in Semiramide, opera sì idealmente "classica" ma anche ben forte delle evoluzioni dell'esperienza napoletana e prepotentemente incisiva sul futuro del melodramma. Né ci persuade del tutto nelle note di copertina firmate da Bernhard Neuhoff l'entusiastica affermazione del valore storico che assume l'approccio di un contraltista nella realizzazione dell'utopia rossiniana, un'utopia che risiede più nello stile, nel linguaggio musicale che nel genere maschile e femminile di artista e voce. Non per nulla, fu di fronte alle sorelle Marchisio che Rossini si commosse come ritornando alla vita, mentre l'idea di coinvolgere i castrati superstiti non sembra averlo mai acceso più di tanto, in caso contrario avrebbe certo usato il suo potere anche per scritturare al S. Carlo musici evirati della Cappella Palatina.

Ciò detto, lo ribadiamo, sia sfizio, riflessione estetica, omaggio, Fagioli canta bene, bene lo supportano i complessi Armonia Atenea diretti da George Petrou e il disco si ascolta con piacere, ed è, in fondo, ciò che più conta. Se, poi, anche il suo Arsace teatrale saprà convincere appieno, saremo certo i primi a gioirne.


 

 

 
 
 

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