di Roberta Pedrotti
Lunedì 9 febbraio la stagione concertistica di Musica Insieme ha proposto, all'Auditorium Manzoni di Bologna, la prima assoluta di Umana Passione: sette musiche per voce e quartetto d'archi tratte da "Il vangelo secondo Gesù" di José Saramago di Matteo D'Amico. Voce recitante, ma anche ispiratore e coautore - per la scelta dei testi - era Sandro Cappelletto, volto, penna e voce ben noti nell'ambiente musicale.
Abbiamo colto l'occasione per una breve conversazione sulla genesi e lo spirito di questo lavoro.
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Le radici di questa Umana Passione messa in musica da Matteo D'Amico si trovano in un'esecuzione delle Ultime sette parole di Cristo sulla croce di Haydn, che lei ha proposto in qualità di direttore artistico all'Accademia Filarmonica Romana, accompagnata non da testi sacri o riflessioni teologiche più o meno canoniche, ma da estratti dal romanzo di José Saramago. Ci vuole raccontare come è nata l'idea e come si è evoluto il rapporto con Il vangelo secondo Gesù e la sua trasformazione, si può dire, in Oratorio?
Desideravo capire che cosa avesse spinto José Saramago, che si è sempre dichiarato non credente, ad affrontare il mistero della Passione di Cristo, decidendo di raccontarla dal punto di vista di Gesù. L’uomo Gesù che si dichiara tratto in inganno dal padre, condotto alla morte come un agnello in sacrificio. Quando Matteo D’Amico ascoltò, durante un concerto della Filarmonica Romana, Le ultime sette parole di Haydn accostate alla lettura di alcuni passaggi del Vangelo di Saramago, sentì immediatamente l’urgenza di ‘vestire’ quel testo con una musica nuova. E’ nato questo melologo sacro, se la parola sacra si può accostare al testo di Saramago, alla sua sconvolgente originalità.
Come potremmo definire il rapporto di Umana Passione con la tradizione della musica sacra? Verrebbe quasi naturale, fin dal titolo, un parallelo con l'accostamento Laudate Dominum/ Laudate Hominem dalla Buona Novella di De André.
L’accostamento è senz’altro possibile. Il punto di vista dei due autori, almeno in partenza, è simile, è il loro voler raccontare la storia di un uomo condotto a morte, per una decisione, una sorte, che lo trascende e ne pretende il sacrificio. La migliore musica sacra ha sempre espresso le attese, le inquietudini, i dubbi dei compositori che l’hanno scritta, vivendo il proprio tempo storico e stilistico. Attitudine che, oggi, persiste in pochi casi, purtroppo. Il lavoro di D’Amico si iscrive a pieno titolo nella musica sacra contemporanea.
A ventiquattro anni dalla pubblicazione, il testo di Saramago sembra ancora scuotere il pubblico. A suo parere in cosa consiste soprattutto la forza di queste pagine, al di là di quello che fu lo scandalo teologico al suo apparire?
Nella potenza della scrittura. Nell’arcata vastissima e nella precisione del dettaglio. Nello stare sempre dalla parte di chi perde: in questo caso, Gesù, ingannato, umiliato, mandato a morire come tanti altri personaggi creati dal Premio Nobel portoghese. Lo scandalo teologico – riassumibile nella battuta che Cristo in croce indirizza a Dio: “Uomini, perdonatelo, perché non sa quello che ha fatto” – non sarebbe certo bastato, se il libro non fosse sostenuto da una scrittura di tale livello.
Fra i Grandi della letteratura degli ultimi anni Saramago è sicuramente uno dei più musicali. Impossibile non pensare, in proposito, alla sua intensa collaborazione con Azio Corghi come librettista. Anche questo ha suggerito di legarlo prima ad Haydn e poi a una partitura nuova? La sua prosa ha un ritmo peculiare, con frasi concatenate, periodi lunghissimi, monologhi interiori e discorsi diretti liberissimi: quali sono state le difficoltà e i criteri nel selezionare i brani da recitare, nell'interpretarli e nell'unirli alla musica (sia quella preesistente di Haydn a Roma, sia quella appositamente ideata da D'Amico a Bologna)? Come si è confrontato con D'Amico nella genesi di quest'opera?
Ho proposto a D’Amico una drammaturgia scandita in sette episodi. Ho lavorato sull’ultimo capitolo, quello dedicato alla Passione, del volume di Saramago; poi, insieme, abbiamo trovato il punto di mediazione tra rispetto della prosa ed esigenze della musica. La scelta del quartetto d’archi è stata senza esitazioni, sia come ‘memoria’ della versione quartettistica delle Ultime sette parole di Haydn, sia perché confrontarsi con la densità di un quartetto d’archi rappresenta per un compositore uno stimolo ancora eccezionale.
Saggista, critico, direttore artistico, voce radiofonica, autore, docente e, come in questo caso, voce recitante. Versatilità o, semplicemente, diversi aspetti di un impegno e di una passione per la musica e il teatro a 360°?
Mi torna alla mente una frase di Luciano Berio: 'Ci sono tanti modi diversi di abitare la musica, di viverla'. L'importante è fermarsi prima di diventare indegni, per prima cosa di fronte a se stessi e, di conseguenza, di fronte al pubblico.
Ci sono nuovi progetti di cui è già possibile parlare?
Uno mi sta molto a cuore: La Grande Guerra (vista con gli occhi di un bambino), un lavoro nato assieme al compositore Claudio Ambrosini, ispirato a un quaderno di scuola di un bambino veneto scritto tra 1917 e 1918. Dopo il debutto alla Fenice lo scorso dicembre, ci stiamo ora impegnando per farlo conoscere ad altri pubblici, affascinati e commossi dalle parole di quel ragazzino di dieci anni, scritte ormai un secolo fa, ma di intatta forza emotiva. La partitura prevede coro maschile, il bravissimo Coenobium Vocale di Vicenza, soprano, pianista, tromba, una voce narrante e un percussionista: un ragazzino, un alter ego in musica del bambino che ha scritto il quaderno di scuola.