di Andrea R. G. Pedrotti
Nato nel 1981 a Be'er Sheva, in Israele, Omer Meir Wellber è uno dei giovani direttori d'orchestra che maggiormente si stanno imponendo sulla scena internazionale. Dopo il diploma in conservatorio, a soli diciotto anni, e la laurea in musica, ma caratterizzata da collegamenti con filosofia e teologia, conseguita nel 2008, è stato assistente del maestro Daniel Barenboim. Il suo lavoro spazia da Mozart fino a tutto il grande repertorio ottocentesco e del primo Novecento.
In vista del suo ritorno sul podio dell'orchestra della Fondazione Arena di Verona, dove aveva debuttato proprio celebrando con Aida il centenario del festival areniano e il bicentenario della nascita di Verdi, gli abbiamo rivolto qualche domanda, in un momento fondamentale per la sua carriera.
Verona, concerto Meir Wellber, 29/03/2015
Maestro, Wellber, lei ha cominciato giovanissimo ad avvicinarsi alla musica, attraverso lo studio di fisarmonica, pianoforte e composizione. Che cosa l'ha spinta verso il mondo della direzione d'orchestra e l'opera lirica?
Inizialmente affrontai lo studio della composizione, poi fui abbastanza deluso per dinamiche interne al conservatorio e, già dal secondo anno, mi dedicai unicamente alla direzione d'orchestra. Quello con il podio fu un amore nato per caso, come spesso accade nella vita.
Quando ebbi la fortuna di diventare assistente di Daniel Barenboim, nel 2008, dirigevo già da qualche anno l'orchestra di Tel Aviv. La collaborazione con un maestro fu molto importante per me, perché il talento non basta, serve anche l'esperienza e la formazione.
Recentemente è stato protagonista di un autentico tour de force al Gran teatro La Fenice di Venezia, cominciato con I Capuleti e i Montecchi. Qual è il suo approccio allo stile e alla teatralità di Bellini? Quali sono, secondo lei, le principali difficoltà e gli aspetti più interessanti da valorizzare in un'opera come questa?
La partitura di I Capuleti e i Montecchi mi ha stupito positivamente, perché non tutte le opere del catanese sono della stessa qualità. Non temo la sacralità, ma amo la precisione e il rispetto della scrittura originale. Molto spesso in Bellini, per esempio, vengono ridotti i tromboni ed è una cosa che non condivido. Bisogna mostrare le difficoltà della scrittura, mostrarne i problemi. Sono una persona puntigliosa, ma amo discutere e mettermi in discussione. Bisogna saper mettere in evidenza che cosa sta alle spalle di una partitura, senza restar legati esclusivamente alla melodia. L'importante è saper allargare le possibilità espressive. Ci vuole rigore e responsabilità; responsabilità che si devono prendere tutti gli interpreti, non solo il direttore d'orchestra, perché non sarebbe corretto essere dei semplici accompagnatori. Amo lavorare con cantanti intelligenti e responsabili e, una volta poste le basi del rigore fondamentale, si può pensare all'interpretazione e godersi il piacere di fare musica.
Dopo I Capuleti e i Montecchi è stata la volta di due capolavori donizettiani brillanti, come L'Elisir d'amore e Don Pasquale. Come si trova alle prese con Donizetti e le sue commedie? È interessato anche alla sua produzione seria?
Non trovo corretto definire i due titoli che ha citato come opere brillanti. Si tratta di due opere semiserie a tutti gli effetti con equilibri sottili, mai troppo comici e mai troppo melanconici. Molte emozioni sono date dal suono stesso dell'orchestra, per esempio la melodia che segue lo schiaffo di Norina a Don Pasquale è uno dei momenti più struggenti del melodramma. A mio parere Donizetti fu più maturo espressivamente rispetto a Bellini, anche per l'influenza che ebbe dall'area tedesca. In molte parti la strumentazione ricorda da vicino Weber o Beethoven.
Ovviamente sono interessato anche al Donizetti serio e a opere come Lucia di Lammermoor o Anna Bolena. Riguardo il repertorio belcantista serio, comunque sono molto attratto dai capolavori rossiniani, specialmente da Ermione o Mosé in Egitto.
Nello stesso periodo, anche La traviata: ci vuole parlare del suo rapporto con Verdi e delle eventuali differenze nell'affrontare il dramma dell'amore fra Romeo e Giulietta e quello fra Violetta e Alfredo?
La traviata fu l'inizio della modernità. Donizetti e Bellini, al contrario, erano ancora legati agli schemi del passato. Violetta non era una ragazza come Adina o Norina, ma una prostituta. In Verdi c'è un discorso filosofico profondo; egli seppe affrontare tutti gli argomenti contemporanei, sociali, civili e religiosi. Don Carlo e Aida furono una grande espressione dei contrasti che affliggevano il mondo e che continuano a farlo ancora oggi. Verdi fu un grandissimo genio della comunicazione. I protagonisti di La Traviata, sono per definizione antieroi: non sono personaggi classicamente positivi. Sonorità e tempi più drammatici non sono congeniali allo spirito più intimo della vicenda: bisogna mostrare il belcanto, perché quest'opera viene dal belcanto. È necessario affrontare il capolavoro verdiano in maniera più melodica e meno impetuosa.
Non solo opera, ma anche grande repertorio sinfonico per lei. Quali sono le differenze e le difficoltà sul podio fra un concerto e un melodramma? In quale repertorio si sente più a suo agio?
Non ho preferenze, voglio viver di musica. Bisogna interpretare al meglio entrambi i repertori, nel sinfonico c'è un simbolismo audibile più profondo, ma affrontare opere come Traviata o Elettra di Strauss è molto più difficile che non molti brani sinfonici. È molto importante saper affrontare entrambi i generi.
Presto tornerà sul podio del teatro Filarmonico di Verona. Qual è il suo rapporto con la città scaligera e i complessi areniani?
È stata una delle prime città dove ho affrontato il repertorio sinfonico e ho diretto più opere. Ho un ottimo rapporto anche con Venezia o Dresda.
Nel 2013 diresse all'Arena l'Aida "del centenario", cui ha fatto seguito Don Pasquale al Filarmonico. Che differenze riscontra un direttore in un grande spazio, come l'anfiteatro veronese, rispetto a un teatro tradizionale, per di più con la medesima orchestra?
Bisogna affinare degli aggiustamenti tecnici. L'approccio dev'essere diverso e in Arena non si può perdere di energia. Bisogna saper trovare alcuni momenti propri nella partitura, pochi per l'unicità dello spazio, mentre in un teatro sono possibili molte più sfumature. All'Arena ci vuole ancor più precisione nell'espressione, nella comunicazione e trovare delle soluzioni nel colore. L'Arena è un luogo magico, con un'atmosfera del tutto particolare.
In molti notano il suo impeto non solo da quando leva la bacchetta, ma già all'avvicinarsi al podio: l'abbiamo vista compiere una sorta di “corsa” e cominciare a dirigere immediatamente, senza nemmeno fermarsi a ricevere l'applauso del pubblico. È un gesto istintivo, o preferisce non perdere concentrazione sin dal camerino?
Sono sempre dentro la musica, spinto dalla passione. Non amo perdere tempo, sono sempre di corsa, infatti non arrivo mai in ritardo. Spesso mi dicono di essere più tranquillo e meno frenetico, ma è il mio modo d'essere.
Sono previsti nuovi impegni, specialmente in Italia, nel prossimo futuro?
Per ora ho in programma molti concerti: a fine marzo a Verona, poi a Torino, dove avrò modo di dirigere Pelleas und Melisande di Schönberg, poema sinfonico molto impegnativo, anche per gli aggiunti di cui necessita. Poi sarò a Bologna, dove dirigerò autori come Mozart e Schumann, suonando personalmente i brani al pianoforte. Questa estate tornerò anche all'Arena per alcune recite di Aida e il gala dedicato alla Carmen di Bizet, mentre a gennaio-febbraio del 2016 sarò nuovamente alla Fenice.
A 33 anni ha già diretto alcune fra le più importanti orchestre del mondo. Quali obbiettivi si pone per la sua carriera futura?
I miei obbiettivi futuri saranno tornare a Londra ad aprile e avere l'opportunità di dirigere un capolavoro come il Mefistofele di Boito a Monaco. Sarà la prima volta in assoluto che questo titolo verrà rappresentato nel teatro bavarese.
Grazie per la sua disponibilità e in bocca al lupo per il futuro.