di Andrea R. G. Pedrotti
Poco prima della Forza del destino [leggi la recensione] che inaugurerà la stagione invernale della Fondazione lirica Arena di Verona, incontriamo il Maestro Omer Meir Wellber. Il maestro israeliano, in un incontro avvenuto nel suo camerino, ci ha parlato della sua esperienza veronese, con già due inaugurazioni invernali alle spalle, oltre che della celebre Aida del centenario, della recente Aida con la regia di Zeffirelli, del Carmen Gala Concert, del suo rapporto con l'orchestra e, ampliando il discorso fatto in una precedente intervista [leggi], le peculiarità del grande anfiteatro scaligero.
Oltre a questo, ci ha raccontato della recente esperienza vissuta alla Bayerische Staatsoper con il debutto di Mefistofele e del suo impegno nel sociale,per la prevenzione delle malattie cardiache infantili.
Partiamo dal debutto veronese con Macbeth: com'è stato l'approccio con la Fondazione Arena al primo impatto?
Ovviamente la prima volta c'è sempre molta curiosità per una nuova esperienza, ma non è stata la prima volta che ho lavorato con Paolo Gavazzeni, che cominciava il suo incarico di direttore artistico proprio con questo titolo. L'amicizia con Paolo è stata il modo giusto per cominciare in un nuovo teatro, perché sapevo di poter contare sull'apporto della direzione artistica, nel contesto di una nuovo ambiente.
Vi siete conosciuti alla Scala, durante la collaborazione con Daniel Barenboim?
Ai tempi di Barenboim, ma era presente anche quando feci Aida e Tosca.
Dopo Macbeth, a Verona, è stata la volta dell'Aida del centenario [leggi la recensione del DVD].
Per me è stata un'esperienza unica. Per prima cosa è stato il mio debutto all'Arena -uno spazio unico- e, in più, io credo molto a questa regia della Fura dels Baus. Secondo me stiamo sbagliando a non riprenderla perché era molto bella e rappresentava il futuro. Una produzione nuova, ma nel rispetto della tradizione. Il pubblico cresce nel tempo, perché deve aver sempre la sensazione di venire qui a Verona a vedere il luogo antico, ma con idee nuove. Per questo vale la pena di investire in questa Aida, come in altre produzioni in quest'ottica di pensiero.
Un connubio fra antico e moderno?
Sì, particolarmente in Arena, dove già il luogo mostra tutta la tradizione, quasi fosse un Antico Testamento del mondo dell'Opera. È una cosa speciale proporre qui un allestimento moderno, piuttosto che a Bregenz dove ogni cosa è già moderna.
C'era un'antitesi visiva fra i marmi e gli elementi scenici.
Certo e ha funzionato molto bene: ogni sera riscuotevamo molto successo di pubblico e, secondo me, nel tempo avremmo sempre più successo.
Com'è stato l'impatto con lo spazio?
All'inizio bisogna abituarsi, ma qui tutti sono molto professionali e di esperienza, l'orchestra e soprattutto il coro che deve cantare molto distante, gli elementi sono molti. C'è una gran lontananza e bisogna prendere le misure con la propagazione del suono.
Quindi anche il rapporto fra buca e palcoscenico è molto particolare?
Bisogna capire come gestirlo e quale sia il gesto migliore per avere un risultato di qualità, ma dopo i primi dieci minuti è come trovarsi in un piccolo teatro, perché l'ambiente, seppur vasto, è molto intimo. Questo vale in modo particolare per Aida, che è un'opera molto intima per più di tre quarti.
In Arena l'articolazione passa molto meglio della dinamica, ovviamente si può sempre suonare piano e forte, ma le sfumature passano meno. L'effetto corto-lungo, sulla corda, lo spiccato si avvertono in maniera più intelligibile rispetto a un crescendo lento. La particolarità del suono non è nella dinamica, ma bisogna giocare molto sulla parola. Questa estate, per esempio, con il coro abbiamo fatto una delle mie Aide più belle: nel testo hanno funzionato molte cose, mi piace citare il finale del primo atto [leggi la recensione].
Anche la scena del giudizio.
Esatto, molte volte la parola in Arena funziona meglio che in un teatro tradizionale, anche se questo può sembrare un paradosso, ma si riesce a ottenere molta intimità con il pubblico.
Poi un'altra inaugurazione con Don Pasquale [leggi la recensione].
È stata una bellissima esperienza. Conoscevo già da prima Antonio Albanese, grazie ad amici comuni ed è stato un vero piacere lavorare con lui. È sempre molto bello vedere questi comici che cercano sempre la parte triste. È un uomo capace di far molto ridere, ma lavorando su questa partitura ha saputo rendere benissimo -per esempio- lo struggimento del momento dello schiaffo.
Le due maschere del teatro?
I momenti comici venivano benissimo, ma lui è riuscito a trasmettere al meglio questo gusto di amarezza. Ed è stata anche molto bella l'idea di ambientare quest'opera in Veneto.
Hai lavorato bene con la compagnia di canto?
Era un cast che sentivo molto mio; lavoriamo spesso assieme. In opere d'assieme come Don Pasquale o nei lavori mozartiani è molto importante che l'ambiente sia formato da amici e in quest'occasione avevamo tutto questo. Io adoro il belcanto, ma non deve essere un museo: amo un belcanto che sia virile. Non accompagniamo nessuno dalla buca perché stiamo lavorando tutti assieme, altrimenti si rischia di diventare noiosi. Le voci sono uno strumento come gli altri e l'orchestra non deve essere un grande pianista. Non voglio un museo di glorie passate, ma amo cercare sfumature diverse e variegate.
Quest'anno ancora Aida, ma con la regia di Franco Zeffirelli.
Di Zeffirelli si può dire molto: tradizionale o non tradizionale, kitsch o non kitsch, ma funziona sempre. Anche in un'opera molto strana per l'Arena, come Don Giovanni ha funzionato molto bene, come funzionava La bohème del 1969.
Il Galà dedicato a Carmen [leggi la recensione], invece, è stato una creatura originale.
Quest'anno mancava il titolo nella stagione estiva e avevamo piacere a dare uno sguardo un po' diverso. Abbiamo eseguito i brani più importanti assieme ad altri dello stesso tema: il mandolinista ha suonato un pezzo di Albeniz, mentre il violinista la Carmen Suite di Sarasate, ovviamente era presente il corpo di ballo. In più volevamo che il pubblico dell'Arena si concentrasse maggiormente sulla musica di Carmen e non solo sulla grande scena. Questo può far molto bene anche a un pubblico che conosce benissimo la partitura. È un'opera che amo molto, era anche la favorita di Mahler.
Dopo l'estate, e prima di tornare a Verona, hai proposto una nuova produzione di Mefistofele [leggi la recensione] alla Bayerische Staatsoper.
Su questo possiamo ricollegarci al discorso sulla Fura dels Baus. Quest'operazione è un esempio d'un teatro che ci tiene a portare nuovo pubblico, nuovi titoli e a creare un ambiente di ricerca e questa è una cosa molto importante. È un progetto nato quattro anni fa in previsione di questa inaugurazione: avevamo pensato a varii titoli, ma poi abbiamo deciso per Mefistofele, dopo aver avuto la disponibilità di René Pape. Non solo credo in questo titolo, ma lo amo proprio, forse anche perché Arrigo Boito non era un musicista di professione, ma che evidenzia molto più talento e coraggio di grandi compositori. Era un uomo proiettato in avanti e voleva proporre le sue innovazioni e le sue idee. Boito ha osato proporre qualcosa di straordinario, al quale nemmeno Verdi era mai arrivato. Ci sono dei momenti orchestrali incredibili. Non ricordo che Verdi abbia mai orchestrato un finale d'atto con una grande doppia fuga, ma Boito amava arrivare sino all'estremo delle possibilità e, personalmente, mi trovo molto bene. Bisogna saper rischiare e non andare mai sul sicuro. Abbiamo provato per ben nove settimane con un lavoro incredibile, per la difficoltà del testo e anche perché tutti i cantanti debuttavano e io stesso avevo diretto solo una recita in Israele. È stata un'esperienza unica, anche perché il pubblico ha risposto con l'entusiasmo che ottiene dopo una Carmen o dopo La traviata. Il titolo era stato eseguito solo una volta a Monaco, in forma di concerto, ma mai alla Staatsoper.
Ora La Forza del destino: un altro titolo, per certi versi, oggi raro.
Raro e nuovo per molti di noi. Una volta sono stato assistente a una produzione della Forza del destino, ma è la prima volta che affronto il titolo da concertatore. Molti interpreti e diversi professori d'orchestra non avevano mai suonato questo titolo. C'è una bella tensione, un po' come in occasione di Mefistofele e molto entusiasmo fra le maestranze perché si ha voglia di fare qualcosa di nuovo. La forza del destino, come Il trovatore, non ha un testo all'altezza della musica e la trama non è elaborata come quella di Traviata, Ernani, Aida o Falstaff. È un titolo molto complesso per il regista, ma anche per il direttore perché è difficile equilibrare fra il testo, il personaggio o la musica. Ci sono momenti di musica bellissima su un libretto debole e brani uniti benissimo, come le scene di Melitone, dove trovo un gran collegamento fra testo e musica, al contrario dei brani affidato a Don Carlo e Don Alvaro, dove è presente un autentico conflitto che dobbiamo saper risolvere, ma, per fortuna, la musica riesce a dipanarli sempre tutti. Bisogna saper sempre scegliere. È un'opera bellissima con una storia debole. È un misto fra Don Carlo (sotto l'aspetto sinfonico) e Rigoletto (per le tinte cupe). Ci sono dei temi ricorrenti già dalla Sinfonia con tema delle chiamate degli ottoni: è una cosa che Verdi non ha fatto spesso ed è un aiuto per noi che possiamo dare un altro sguardo al destino e al significato di questa parola. Verdi gioca su questo, ci domandiamo che cosa sia il destino, se sia esso ha creare la vita, o la vita a creare il destino. È un argomento filosofico che non avrà mai risposta. Forse solo Don Carlo, nella versione in cinque atti, cela significati simili. Mi piacerebbe molto dirigere quest'opera.
Oltre alla musica esiste in Israele un'iniziativa per la cura dei bambini malati, in qualità di ambasciatore dalla ONLUS israeliana Save a child’s heart.
Il progetto è iniziato prima che arrivassi io, infatti sono ormai venti anni che esiste questa iniziativa.
Circa due anni fa ho pensato che fosse bello trovare qualcosa di buono da fare e qualcosa di buono di cui poter parlare. Riguardo Israele ci sono situazioni cangianti e molte volte, da artista israeliano, sembra io debba diventare portavoce del governo, anche se non sono un politico. Purtroppo sono costretto perché, ogni volta che succede qualcosa in Israele, in tutte le interviste, anziché parlarmi di musica, mi si chiede di esprimermi sull'attualità e le scelte del governo: per rispondere a questo ho deciso di cercare un bellissimo progetto nel mio Paese di cui parlare. Il nostro obbiettivo è quello di curare i bambini: la maggior parte viene dalla Palestina, poi Israele, Siria, Libano, Africa, Romania e paesi del terzo mondo. Si fanno curare in Israele da medici specializzati per un problema al cuore, si tratta della cura della tonsillite batterica, in modo che non sfoci nell'endocardite: da noi si cura con un semplice antibiotico e vogliamo evitare che questa infezione si propaghi. Abbiamo una scuola per medici stranieri e, per esempio, da noi si è formato il miglior cardiochirurgo infantile del Botswana. Facciamo eventi e concerti con la mia orchestra (la Raanana Symphoniette) per promuovere questa doppia iniziativa di cura e formazione.
Grazie e in bocca al lupo per l'inaugurazione del 13 dicembre.