di Roberta Pedrotti
Scambiare qualche parola con Silvia Paoli, nel foyer poco prima dell'inizio della seconda recita delle Nozze di Figaro, mette subito allegria. La giovane regista fiorentina dimostra passione autentica, idee chiare, una carica straordinaria di energia positiva: quel di cui il nostro teatro ha bisogno per liberarsi definivamente di polvere, dogmi, miopie. Il che non vuol dire, certo, la rivoluzione fine a se stessa: lo conferma lo spettacolo fresco e agile con cui si presenta al pubblico bolognese [ leggi la recensione] puntando principalmente al lavoro sull'attore-cantante (per di più giovane e non troppo esperto). La vicenda è chiara, ma la narrazione non pedissequamente didascalica, l'eleganza della composizione e la cura del ritmo fanno pensare per certi versi alla lezione di Michieletto - e in effetti l'impressione curiosa e speranzosa che ci accompagna al termine della recita è la stessa che suscitò, una decina d'anni fa, il defilato esordio pesarese del regista con Il trionfo delle belle di Pavesi - e di Ponnelle. Per essere una delle prime esperienze come regista, dopo una buona gavetta come assitente e con un'intensa carriera parallela come attrice, le premesse per seguire con attenzione la sua attività futura ci sono tutte.
Michieletto, grazie al quale ha mosso i primi passi nella regia lirica, è citato con Marthaler, Strehler, Guth e Ronconi fra i tanti che hanno lasciato, o lasciano, un'impronta significativa nel mondo dell'opera, un mondo che per fortuna si sta aprendo sempre di più all'evoluzione dei linguaggi teatrali. Non una forzatura, ma una risorsa connaturata all'origine del recitar cantando, un'opportunità da raccogliere con entusiasmo e sviluppare con intelligenza, consapevolezza e convinzione.