di Rossella Rossi
Forte di un nutrito catalogo di opere e recentemente segnalato come uno tra i compositori della sua generazione più eseguiti al mondo, Francesco Filidei, dopo essersi diplomato in organo al Conservatorio di Firenze e essere stato allievo di Salvatore Sciarrino, ha seguito i corsi di specializzazione in composizione e informatica musicale al prestigioso istituto Ircam (fondato da Pierre Boulez ) e da quasi vent'anni risiede nella capitale francese. Il prossimo 2 aprile, nel corso della trentatreesima edizione del Festival Printemps des Arts di Monte-Carlo, verrà eseguito un suo lavoro per flauto, accordeon e orchestra in prima esecuzione assoluta, dal titolo enigmatico Sull’essere angeli.
Questa è la sua seconda commissione per il festival di Monte-Carlo. Un brano molto diverso da quello presentato nel 2009 al Festival, N.N. Sulla morte dell'anarchico Serantini (per sei voci soliste e sei percussioni).
Il brano che eseguiremo quest’anno si configura in modo del tutto originale all’interno del mio lavoro. Monte-Carlo è sempre un’esperienza interessante e curiosa: il direttore artistico, Marc Monnet, ripensa il concerto classico in maniera completamente nuova, ne smonta e reinventa la liturgia e in questa maniera apre a un pubblico diverso. Il programma di una giornata è vario e composito, con orchestra, balletti, installazioni. Ci sono tre o quattro pezzi in programma poi il pubblico è invitato a girare per l’Auditorium, ci sono invenzioni molto particolari, a volte intervengono anche dei clown.
Sull’essere angeli è un lavoro che riecheggia nel titolo una serie di fotografie di Francesca Woodman che è stata, nonostante la sua breve vita, una fotografa influente e importante per gli ultimi decenni del XX secolo. Che peso hanno avuto questi scatti nel contesto del brano?
Quando scrivo per strumento penso sempre a qualcosa di reale. Prima ho un’immagine, a questa si associano esperienze della vita che per una serie di ambiguità si cerca di amalgamare. E un progetto è ogni volta diverso. Recentemente sono uscito da una fase nella quale avevo molto lavorato su grandi compositori. L’opera che ho eseguito nel 2015, Giordano Bruno, è stata l’ ultima tappa di vent’anni di composizioni, c’è un po’ tutto quello che avevo fatto prima. Ho fatto fatica a riprendere un cammino diverso. All’inizio mi immaginavo una linea melodica come un corpo nudo che non sa dove sta andando. Con il procedere del lavoro questo corpo viene mano a mano “rivestito dall’orchestra”. Le foto di Francesca Woodman le conoscevo già, sono foto assolutamente inquietanti anche considerando l’età della ragazza. Poi questa prima idea si è in qualche modo saldata alla morte di una giovane pianista, Eleonora Kojucharov, morta pochi mesi fa di cancro, il brano è dedicato a lei. Già come ispirazione il flauto ha un che di angelico, ad eseguire la parte solista sarà un importante strumentista, Mario Caroli, che insegna a Friburgo e Strasburgo. Il brano ha ancora più solitudine dentro di quanta ne abbiano le foto della Woodman, è un pezzo tragico che ha un carattere mahleriano nel quale le voci si sciolgono nei registri più disparati, dura 26 minuti.
Come si è evoluto in questi anni il suo percorso artistico?
Il lavoro più importante di questi tre anni è stata l’opera su Giordano Bruno. Sono stato contagiato dalla hybris di Bruno, sentivo la voglia di bruciare qualcosa prima di scrivere, come una volontà di aggressione che è alla radice di questo progetto. Riflettevo su Giordano Bruno sin da quando ero studente di filosofia a Pisa. Poi Nanni Balestrini mi ha proposto questo soggetto, mentre il libretto è stato scritto da Stefano Busellato; in un primo momento il progetto prevedeva anche un coinvolgimento di Jannis Kounellis. È stato rappresentato al Piccolo a Milano, Parigi, Strasburgo, Porto. Si compone di dodici scene ognuna delle quali dedicata ad una nota, ha una struttura dodecafonica, quattro solisti e dodici componenti del coro.
Come esce il pubblico dal teatro?
Io vorrei che ne uscisse diverso,con qualcosa su cui riflettere. L’opera si inserisce nell’ambito classico ma è anche un’opera reazionaria perché il genere è morto. È una tradizione che va ripensata in chiave moderna. Come italiano mi sento molto legato a questo linguaggio che mi appartiene naturalmente ma bisogna avere la consapevolezza che scrivere opere significa trovare una soluzione indicando il materiale come appartenente ad una fase storica ormai sorpassata. Nell’opera ho contrassegnato le sezioni narrative e concettuali con una struttura distinta: scale cromatiche ascendenti per la dottrina e il processo del nolano, scale discendenti per il rogo e il corpo che brucia.
Come definirebbe il suo stile?
Transavanguardia musicale. Sento che la generazione alla quale appartengo è ormai al di là di ogni sperimentazione. Ora tutto è appiattito, o vai verso certe correnti concettuali o prendi il rapporto con la storia e lo relativizzi filtrato dalle esperienze che hai fatto.
Che peso ha la musica elettronica nel suo linguaggio?
La musica elettronica è stata importante per la definizione del pensiero. Io preferisco lavorare con gli strumenti, con le persone.
Le voci dettano dei pensieri musicali ?
Le persone portano con sé il loro corpo. Tu scrivi su un pentagramma loro fanno vivere i suoni.
A cosa sta lavorando attualmente?
Nella nuova produzione francese che sto preparando con l’Opéra-comique allestisco degli atelier nei quali faccio improvvisare i cantanti. Prima li ascolto e poi scrivo per loro. Lavoro con un regista, Joel Pommerat, con i cantanti che improvvisano sui testi. Occorre scrivere tutto all’impronta ma è un lavoro molto stimolante e ci sono già quaranta minuti di musica.
Lei è organista, scrive per il suo strumento?
Come compositore non scrivo per il mio strumento ma l’organo rivive attraverso ciò che scrivo per orchestra.