di Anna Costalonga
Nelle parole del baritono Paolo Rumetz, che con il maestro ha condiviso un profondo rapporto professionale e umano, ricordiamo Nello Santi, scomparso lo scorso 6 febbraio.
Qual è stato il tuo ultimo incontro con Nello Santi?
L'ultimo incontro di persona è stato per il Simon Boccanegra del 2013 a Tokyo, ma ci sentivamo spesso. Le telefonate erano sempre gioviali e piene di risate, era sempre spiritosissimo. Dava sempre molti consigli, citava artisti, cantava frasi intere e mi dava indicazioni. È da quando ci siamo conosciuti nel 2002 che si è instaurato un bellissimo rapporto.
Hai un rapporto molto stretto con tutta la famiglia.
Ho avuto l'onore e il privilegio di essere accolto dalla famiglia di Santi. Esisteva un rapporto di amicizia con i figli e la moglie. Io, tuttavia, l'ho sempre chiamato maestro e lui mi ha sempre dato del lei e si è sempre rivolto a me come Sig. Rumetz. Aveva uno stile che oggi non esiste quasi più. Oggi si potrebbe leggere l'atteggiamento come spocchioso, ma, in realtà, aiutava molto anche nella professione. Era molto naturale e mai manierato.
Tu eri un suo grande ammiratore già da prima di conoscerlo.
Per me Santi era un mito, già dalla fine degli anni '70, ben prima di conoscerlo di persona. Ricordo molte recite di Aida in Arena, un bellissimo Attila, ma il ricordo più bello fu, sempre in Arena, un Macbeth diretto da Santi con la Dimitrova e Bruson. Era già un'icona del passato e aveva lavorato con tutti i più grandi del XX secolo.
Che metodo di lavoro seguiva durante la proparazione di uno spettacolo?
Lavorava molto sulle parti d'orchestra che portava personalmente, con le arcate e le indicazioni dinamiche e di espressione già scritte. Ricordo, a questo proposito, una Bohème a Tokyo, mentre provavamo il secondo atto, quando in partitura è previsto un leggero scarto nell'attacco dei due clarinetti. Sulle parti non era segnato, allora lui scese con una piccola partitura, quelle vecchie della Ricordi, e si diresse con grande flemma verso i professori per far notare il punto e tutta l'orchestra lo applaudì.
Che organizzazione prevedeva per il lavoro con i cantanti?
Com'era d'uso un tempo, la prima riunione di compagnia prevedeva due prove musicali, mattina e pomeriggio, e il regista arrivava dopo. Spiegava le sue intenzioni, ti aiutava e trovava le soluzioni. Ricordo, quando facemmo Aida assieme, come mi aiutò nel cantabile del terzo atto, grazie a una soluzione semplicissima per amministrare meglio la gestione del fiato. Gli feci notare l'acume del suo consiglio, ma lui mi rispose che non era merito suo, ma dell'esperienza dell'ascolto di tanti anni, con esempi molto precisi. Aveva risolto, per esempio, anche il duetto del primo atto di Rigoletto a molti artisti ben più grandi di me, grazie alle sue semplici, ma geniali, indicazioni.
Che cosa pensava della tua vocalità?
Il primo ruolo che feci con lui non fu da baritono lirico, ma Maurizio nei Quattro rusteghi di Wolf-Ferrari nel 2002. Lui sosteneva che io fossi un baritono lirico e mi ha sempre incoraggiato a seguire questo repertorio e, se ho avuto l'opportunità di affrontarlo all'opera di Vienna, lo devo assolutamente a lui. A parte le indicazioni, fu la grande fiducia che ebbe in me come baritono verdiano. Erano autentiche iniezioni di fiducia, che venivano da una persona che ammiravo moltissimo e che aveva lavorato con i più grandi.
Che altre opere hai cantato sotto la sua direzione?
Con lui ho cantato La bohème, Aida, Simon Boccanegra, Falstaff, Otello, La forza del destino, Il segreto di Susanna. L'ultimo fu il Simon Boccanegra a Tokyo: fu un'esperienza fantastica. Ricordo una prova del duetto con Amelia, quando mi commossi e lui sbottò con un “facciamo una bella pausa, o qui si deve andare via tutti in gondola fra le lacrime”.
Santi vi ascoltava molto anche durante la recita.
Lui cantava tutta l'opera con te, seguiva le voci. Utilizzava una bacchetta lunghissima, com'era d'uso un tempo, ma era particolarmente composto. Falstaff io arrivai a sostituire Raimondi a Zurigo. Lo vidi prima della recita e mi disse: “non si preoccupi di guardarmi troppo, perché guardo io lei”. Subito dopo la recita fece un gesto molto bello, documentato da un video: mi teneva per mano, e mentre rientravamo in quinta, lui mi rispinse fuori da solo, lasciandomi il proscenio. Fu un bel gesto.
E Otello? Come vedeva la parte per la tua voce?
Fra i baritono amava molto Aldo Protti -infatti un figlio è omonimo per lui e un altro si chiama Carlo per Bergonzi- e io gli feci notare che non avevo la voce abbastanza scura per Jago, ma lui rispose che Jago dev'essere la persona più simpatica e gioviale del mondo, chi mai si fiderebbe di uno che fa il cattivo? Mi invitava a cantare con la mia voce, senza pensare ai vari Cappuccilli e Bastianini che erano un altro tipo di artisti.
Amonasro, è una parte breve, ma avevate lavorato molto su tutto il ruolo, non solo sul terzo atto.
Riguardo Aida, rammento che per la sortita di Amonasro mi sottolineava, e lo faceva spesso, di cercare l'espressione nella voce e lui mi avrebbe aiutato. Si stava abbastanza assieme anche convivialmente e mi dava molti consigli anche a tavola. Non faceva particolari discorsi prima e lavorava durante le prove musicali. Prevedeva che, al pari dei cantanti, anche l'orchestra fraseggiasse. Aveva una grande manualità nel costruire l'opera d'arte, avendo già in testa l'idea del prodotto compiuto, un grande artista artigiano cesellatore.
Che rapporto aveva con la filologia?
Sicuramente non era un grande estimatore della filologia; amava tantissimo la tradizione, ma non quella becera. Era una persona molto educata, ironico, con una memoria prodigiosa per le date. A Tokyo avevo trovato un Don Carlo diretto da lui al MET: stavamo provando Aida e glielo mostrai. In quel momento lui mi citò con precisione stupefacente il cast, la data e gli orari. Ho visto raramente delle sue sfuriate, ma erano veramente terribili.
Hai un ultimo pensiero da condividere?
Sì, penso che, senza di lui, la musica oggi sia più povera.