di Roberta Pedrotti
A due anni dal suo ultimo concerto come direttore musicale del Teatro Comunale, Michele Mariotti torna a Bologna per riaprire ufficialmente al pubblico la sala del Bibbiena dopo la chiusura imposta dalla pandemia. Due serate, la prima delle quali dedicata agli operatori sanitari, con l'orchestra distanziata in platea e il pubblico nei palchi; in programma Gluck, Mozart e Beethoven. [Il concerto sarà disponibile sul canale youtube del Teatro dal 28 giugno alle 20:00]
Nell'occasione, gli abbiamo chiesto di parlarci di questa serata, delle emozioni e delle difficoltà del ritorno al rapporto con l'orchestra e con il pubblico. La riflessione sull'emergenza di questi mesi, però, porta anche a ragionare sul contratto degli artisti e sul ruolo dell'interprete in rapporto al testo, alla propria storia personale e agli eventi storici, del lavoro del direttore con il regista e con i cantanti, del prossimo debutto in Aida, ma anche di Beethoven, Puccini e Rossini.
Dallo scoppio della pandemia questo è stato il tuo primo concerto?
Sì, anche per l'orchestra. È stato bello tornare a Bologna, e poi è importante comunque ripartire, anche se in condizioni anomale. Un'orchestra spalmata in platea è molto scomoda e va contro il principio del far musica insieme, ma ora questa è la situazione, ci sono delle norme e, per esempio, non potendo far muovere gli strumentisti, anche chi avrebbe suonato solo negli ultimi minuti è stato in posizione per tutta la serata, cosa che normalmente non succede. Però, si è fatto bene anche così. Loro mi conoscono, io li conosco, tra di loro si conoscono, quindi, con l'esperienza, dopo i primi minuti ti abitui, alle prove dopo un po' capisci i tempi, gli anticipi negli attacchi e tutto è andato bene. È stato molto bello, anche il programma, e han suonato molto bene.
Molto significativo partire con la danza degli spiriti beati dall'Orfeo di Gluck...
Sì, ed è risultato un pezzo perfetto anche acusticamente, proprio magico. Per il resto, sai, con l'orchestra così dilatata la posizione da cui si ascolta cambia moltissimo, magari se sei sopra ai tromboni senti solo quelli, se ti trovi in fondo, nella curva del ferro di cavallo ti arriva un suono anche abbastanza buono. Da dove ero io, non mi dispiaceva. Chiaro, non è il massimo, ma in queste serate non era questo l'importante, l'importante era ripartire.
Ricordo il tuo ultimo concerto a Bologna, una serata molto commuovente. Si era detto che saresti tornato al Comunale per un evento importante, anche se nessuno poteva immaginare cosa sarebbe successo.
È stato bello lo stesso. Sono contento che abbiano pensato a me per ripartire, ne sono stato felice. Non ci si vedeva da due anni, ma è stato è come se avessimo lavorato l'altro ieri perché gli automatismi sono sempre gli stessi, ci si conosce talmente bene che l'orchestra è subito reattiva, come se non avessimo mai interrotto.
E anche per loro significava tornare a suonare insieme. Un problema di cui si parla parecchio è proprio il rischio di perdere, per un'orchestra, la coesione, l'abitudine a essere un corpo sonoro unico.
Abbiamo fatto due giorni di prove, tre ore più tre ore, più la generale... il tempo per lavorare c'era. Conta anche che è repertorio che l'orchestra conosce bene, però, anche per loro, con queste distanze è facile che ognuno si senta solista, che manchi la compattezza e, quindi, se non si tratta di un'orchestra comunque esperta o abituata a suonare insieme da sempre è difficile, difficilissimo.
Immagino che sia difficile, ora, anche fare programmi concreti per il futuro.
Ho letto, per esempio, che si è parlato a Bologna anche del Paladozza per degli eventi. Adesso, ovviamente si deve lavorare all'aperto, finché si può, per quanto brutto sia. Io, per esempio, non avevo mai voluto dirigere all'aperto prima, ma a fine luglio sarò a Napoli per Aida, debutterò l'opera e poi la rifarò in marzo a Parigi. Adesso, sai, certe soluzioni, piacciano o meno, sono necessarie per poter riprendere; poi quando arriverà ottobre, si vedrà. Siamo tutti in attesa, perché ogni previsione adesso è prematura: guarda cosa è successo alla Bartolini!
In tanti campi, a volte si percepisce una certa ansia intorno alla ripresa, ed è comprensibile. Anche se fra sentimenti contrastanti, purtroppo vedo anche chi sembra comportarsi come se nulla fosse, se nulla fosse successo.
Purtroppo, tanti, non tutti, sembrano vedere solo un “devo riprendere a guadagnare”, ma se non c'è un piano preciso sulle scuole, figuriamoci su di noi!
Io non mi sono messo a pensare “devo fare quello”, “cavolo ho perso quello”: alla fine ho continuato a studiare nel lockdown, come se dovessi lavorare ugualmente, e se anche gli impegni sono saltati non è stato tempo perso. Se anche alla fine una produzione salta, tempo perso non è: studio, mi preparo, e quando sarà sarà. Altrimenti, se non reagisci così, con chi te la prendi? Certo, nel mio caso ho avuto fortuna perché praticamente tutte le produzioni perse erano all'estero: dei Masnadieri a Monaco abbiamo potuto fare una recita sola, poi ci sarebbero state due opere a Vienna, oltre a tre concerti sinfonici in Italia. All'infuori del Covent Garden che è in guai molto seri, questi grandi teatri esteri non hanno difficoltà economiche e riescono a riconoscere una piccola percentuale di quel che hai perso. Un decimo, magari, di quello che avresti guadagnato, ma almeno qualcosa, meglio di niente.
C'è una tutela, insomma.
Un minimo sì. Una piccola percentuale per ogni recita che hai perso. Ma in Italia non si è in grado di fare un ragionamento così. Non si pagano le prove, non c'è nessuna tutela.
Dovrebbe proprio cambiare la natura del contratto. Il compenso dovrebbe essere ripartito in modo diverso, per comprendere le spese, le trasferte, per ogni evenienza. A Monaco, per esempio, ho fatto un mese e mezzo di prove, una recita e poi c'è stata la chiusura, però almeno qualcosa per le prove era stato dato. Pensa a un cantante che magari sta male e deve lasciare la produzione: almeno va pari, non perdi i soldi dell'alloggio, che è già qualcosa. Questo da noi in Italia non è previsto. Si parla di lavoratori privilegiati, e in alcuni casi è vero, indubbiamente i nostri cachet possono metterci al riparo da molte cose: se io mi rompo un braccio e sto cinque mesi fermo, non faccio la fame. Però non per tutti è così: pensa a un comprimario! Siamo in una situazione d'emergenza, in una pandemia, fuori da ogni previsione e a questo si aggiunge come lo Stato pensa a noi.
Ricordo che presentando La bohème a Bologna un paio d'anni fa avevi parlato del tuo rapporto con la malattia e la sofferenza. Come influisce la situazione attuale sul tuo modo di essere musicista?
Cambia, cambia tanto, vedi le cose in maniera diversa. Questo fa parte, o dovrebbe far parte, del normale percorso di maturazione di un interprete: non si cambia per noia, ma cambiamo noi, cambia il mondo, cambiano gli eventi. Per esempio, la Quinta di Beethoven io l'avevo già diretta, ma adesso la vedo in maniera diversa, la sento in maniera diversa, vedo le cose in maniera diversa, anche i momenti strettamente musicali. Il motivo per cui ho scelto di inserirla in questo concerto è stato proprio il modo di intendere il momento secondo me più suggestivo, fra il terzo e quarto movimento, quando resta un tappeto degli archi da suonare senza ormai nessuna espressività, inerte, inerme, con questi battiti del timpano. È proprio un corpo che ormai sta morendo e inaspettatamente, alla fine, hai questa esplosione, questa rinascita, una resurrezione verso il galoppo finale, pieno di vita. Quindi, è un po' una metafora di quello che si è vissuto. Anche in Gluck c'è la discesa agli Inferi, seppure in una cornice serena. Il flauto è accompagnato da quartine degli archi e come l'orchestra in prova me lo ha suonato era davvero bellissimo. Ho detto loro che, però, questo è un mare, un'oasi, ma siamo all'inferno, invece. Chiaro: vedi le cose in maniera diversa, ti fai giustamente condizionare anche dal momento storico che vivi, da queste sofferenze. E, sì, sono sempre stato profondamente colpito, ammirato, in un certo senso affascinato dalle persone che convivono con la sofferenza, quelle per cui le cose non sono mai facili. Si possono ritrovare nei grandi protagonisti delle opere o nel modo in cui interpreti l'opera stessa. La nostra Bohème era proprio così: noi non abbiamo voluto parlare in maniera romantica di una storia d'amore, ma in maniera spietata proprio della paura di amare, della difficoltà di amare, delle situazioni che puoi evitare o prendere alla larga, degli eventi della vita cui invece non puoi sfuggire e devi affrontare.
Ho un amico che vive ad Atene e dalla finestra vede il Partenone, ma mi diceva, ormai, di non farci caso, di non vederlo più. Ecco, succede anche a noi con le grandi opere. Purtroppo non le guardiamo più, le diamo per scontate. Per quella Bohème tanti hanno elogiato la modernità della lettura, anche della direzione, ma in realtà quella modernità stava non dico nel rileggerla, proprio nel leggerla e cercare di capire quello che c'era scritto senza tenere a mente le tradizioni, belle o brutte che siano.
Per esempio, la preghiera di Musetta: ancor prima di studiarla mi chiedevo perché venisse cantata così forte. Pensavo a mia nonna, che pregava sempre bisbigliando in latinorum a fior di labbra. Al momento di studiarla vedo che Puccini scrive “sommessamente mormora”. Io ho nelle orecchie delle Bohème anche bellissime in cui però Musetta “cantava” come a dire “è la mia seconda opportunità devo farmi sentire”, ma non è così. Oppure il finale, che doveva essere completamente diverso, con Rodolfo che vestiva Mimì, le metteva le scarpe, un abbraccio, uscita lenta, un po' di tradizione. Durante le prove io andai da Vick e gli dissi “Ma abbiamo fatto trenta, perché non facciamo trentuno?” Non ci inventiamo nulla: nel duetto con Marcello Rodolfo ammette proprio di aver paura. Lui ama Mimì ma ha paura, non ha la forza, scappa. Allora non dovevamo fare che in un film americano che alla fine rovina tutto per cercare l'applauso. Non ci vuole l'applauso, continuiamo a essere brutti e antipatici, anche se alla gente non piacerà. È brutto, lei che gli cade addosso, lui ha orrore, ha paura, scappa, la tratta come un sacco di patate: sì, è brutto, ma paradossalmente è più vero, più umano.
Esatto, non credo di aver mai vissuto più profondamente quest'opera. E con molti amici, con esperienze diverse, ci siamo trovati a concordare che era come vedere la storia delle nostre vite.
E così è stata. Di fatto la modernità era la una maggiore attenzione a quello che è scritto.
Anche in quest'ultimo concerto al Comunale, con l'orchestra tante volte ho dovuto insistere perchè non suonassero semplicemente “come si è sempre fatto”: che sia bello o brutto, dobbiamo fare quello che è scritto. Per esempio, all'inizio del terzo movimento tutti ritardano come se si perdesse la benzina; in partitura Bärenreiter è scritto “poco ritardando” e devo dire che è tutta un'altra cosa. Ma questa attenzione non significa “devi fare questo, punto”, significa interrogarsi e capire il senso musicale. E dicevo all'orchestra che così non si perde l'idea di levare che caratterizza tutta la sinfonia, e il terzo movimento è tutto anacrusico: capisci che c'è un senso, una logica cui pensava il compositore.
Pensa anche ad Aida, un'opera di spirito che più cameristico non si può, con una varietà armonica impressionante. Togli la marcia trionfale, quello è un momento, un affresco che mi serve a evidenziare - ancora di più adesso, purtroppo – la distanza sociale che c'è tra i bianchi i neri, tra ricchi, poveri, ebrei... quello che vuoi. Ma il resto dell'opera è un dramma intimo privato, è un triangolo. E le esplosioni, che ci sono, sono più forti se fai tutto come è scritto, se ci sono dei piano, dei pianissimi, se con le voci si presta attenzione al modo di dire le frasi. “Se quel guerrier io fossi” tutti lo attaccano subito eroico, ma Verdi “con entusiasmo” lo prescrive solo in seguito: all'inizio è un ragazzo che sta sognando, poi squillano le trombe. Io so benissimo che uno come Kaufmann, con cui farò Aida sia a Napoli sia a Parigi, lo capisce subito, lo farà, perché è intelligente. Questi sono piccoli dettagli che magari noteranno solo dieci persone, però per farai il lavoro per quei dieci e ne varrà la pena.
Poi per carità, si tratta anche di fare delle scelte: dell'Orphée di Gluck che feci alla Scala tanti hanno lodato l'eleganza, ma è stato anche detto che mancasse di nerbo. Io penso di aver lavorato in base alla compagnia che avevo, che certi effetti barocchi magari avrebbero cozzato con la voce e il modo di cantare di Florez, per esempio. Sono scelte di stile, scelte che possono piacere o meno.
In tanti casi anche a me capita di parlare di un'interpretazione contrapposta a un'altra, ma spesso il punto è che si tratta di punti di vista validi, senza che uno sia per forza di cose giusto e uno sbagliato.
Se tu non sei curioso e ti adagi su quello che conosci, magari ami quel disco lì e lo hai sempre sentito, allora quel che è diverso, inevitabilmente, non sarà bello. Sì, l'aspetto culturale di chi ascolta, di chi scrive, di chi giudica conta molto.
Mi fai pensare alla Semiramide che avete fatto l'anno scorso a Pesaro. Non l'ho considerato il lavoro più riuscito di Vick, ma mi sono resa conto che certi aspetti mi hanno toccata molto, e per questo disturbata fino a reazioni di rifiuto.
Noi dall'interno non possiamo essere giudici di uno spettacolo che il pubblico vede una sera e noi ogni giorno, mentre prende forma, per un mese. Però posso dire che il famoso Teddy Bear per me era diventata un'immagine ansiogena, come quella che mi ha sempre trasmesso Dumbo fin da bambino. L'effetto è lo stesso, poi ognuno di noi ha la propria sensibilità, uno spettacolo tocca le nostre corde in modo diverso, ma comunque deve avere una qualità, far pensare, come ritengo fosse questo. Mi ricordo che anche provando il Guillaume Tell nel 2013 ero rimasto perplesso, la prima volta, dal terzetto delle donne: Edwige prepara il caffé? Con la moka? Poi ho realizzato quanta tenerezza, intimità ci fosse nel gesto di quella donna che accoglie la principessa, magari vergognandosi un po' della sua vecchia caffettiera. Vick legge sempre a diversi livelli, ci sono sempre tanti strati: sì, la violenza, la sottomissione, ma anche il rapporto fra queste due donne, fra Edwige e Mathilde, io non l'avevo ma visto, non l'avevo mai trovato così lavorato in profondità. Lui è così.
Davvero. Spesso mi trovo a rievocare come nel “vostro” Tell, a differenza di tutti gli altri che conoscessi, ogni personaggio avesse una propria personalità, una propria storia, lo si scoprisse come la prima volta.
Pensa Gessler!
Vero, lì in genere basta un basso anonimo che ringhia, Luca Tittoto fece un capolavoro, una creazione.
Oppure anche Melchtal (Simone Alberghini ndr). Con quel coro, era commovente: l'importanza delle radici, Jemmy che gli si buttava addosso, proprio come noi da bambini con i genitori, i nonni che raccontano le storie. Un'umanizzazione enorme. E questo ambiente bianco, asettico, da pulire, mentre il popolo riporta la terra, sporca, perché si cresce forti a contatto con la natura, più forti dei soldati armati di fucile ma che restano fragili, vulnerabili. Quante persone reali conosciamo così? L'interpretazione rende davvero vive queste opere, come anche i brani sinfonici. Quello che diceva Gavazzeni: è la “debita appropriazione” che fa l'artista.
Giusto, anche se, nello spirito dei suoi tempi, come tagli e ritocchi oggi Gavazzeni per i nostri occhi esagerava un po'.
Certamente. Oggi, sai, capitano situazioni in cui è i teatro a imporre dei tagli e allora capita che l'alternativa sia “o accetti o vai via”. L'importante, in ogni caso, è rispettare la geometria, gli equilibri interni. Si può vivere anche senza una gamba, ma comunque con un'armonia diversa, non è la tua condizione naturale ideale. Piuttosto che togliere delle battute, frasi, parti qui e là, è meglio agire per mantenere un bilanciamento interno, se togli un ritornello a quel punto toglili tutti. Se invece di una casa di 200 metri quatrati con tre camere da letto, ce n'è una da metri quadrati 50, sempre casa è, ci puoi sempre vivere, ma in maniera diversa. Puoi anche fare una casa senza le finestre, ma è buia, ti devi arrangiare. L'importante, sempre, è rispettare un concetto di armonia strutturale su cui si basa poi tutto l'impianto dell'opera e noi dobbiamo puntare il più possibile a questa integrità e a questa coerenza, finché ce lo permettono. Quando ho fatto La forza del destino ad Amsterdam mi sono imposto per non effettuare tagli e l'opera così nella sua completezza è stupenda.
A volte penso che opere percepite come un po' sbilenche lo siano a causa di tagli di tradizione. Ricordo il giudizio tremendo che Massimo Mila diede di Semiramide, lui che in teatro poteva avere esperienza solo di esecuzioni in cui mancava almeno un'ora di musica!
Una cosa strana è che spesso un'opera tagliata alla fine sembra perfino più lunga, perché perde di logica, di equilibrio, di fluidità.
Non farmi pensare ai tagli terrificanti inflitti al Guglielmo Tell del circuito lombardo qualche mese fa: il terzo atto durava venti minuti, ma la cosa più grave è che non solo si tagliavano numeri interi, anche singole battute, porzioni di frasi!
Ricordo di aver sentito di un Guillaume Tell in cui l'ouverture era spostata dopo un intervallo in mezzo al terzo atto. Falla col Tristan una cosa così e vediamo che fine fai... oppure un Nabucco, con il coro fuori scena in “Va' pensiero”, mentre si svolgeva un'altra azione sul palco.
Questo mi sembra il classico espediente di chi non sa come muovere il coro e ha il terrore di lasciar la scena ferma, come se dovesse succedere chissà cosa durante “Va' pensiero”!
Tornando ai programmi futuri, ora ti aspettano, entrambi all'aperto e in forma di concerto, Aida a Napoli ed Ernani a Parma.
Questa Aida è nata al'improvviso, essendo già stato scritturato da Lissner per lo stesso titolo nel 2021 a Parigi, dove ci saranno Radvanovsky , Garanča , Kaufmann e Tézier, come sovrintendente del San Carlo mi ha proposto ora di anticipare il debutto a Napoli, sempre con Kaufmann e Pirozzi, Rachvelishvili e Sgura (che canterà alcune recite anche all'Opèra). Le prove dovranno combinarsi con le recite e le prove di Tosca, sperando nel bel tempo, ma dato che questo non dipende da noi non mi faccio prendere dall'ansia. Ernani a Parma era già stato programmato in forma di concerto. Cambierà lo spazio, passando all'aperto e sempre confidando nel clima settembrino. Poi, finita l'estate sarà tutto più complicato. Mi auguro che nel frattempo si metta a punto una cura, un vaccino, speriamo rapidamente. È ovvio che tutti abbiamo voglia di fare, di tornare a una vita normale, ma ora bisogna adattarsi a far quello che si può. Adattarsi, ripartire, cercare anche nuove strade, senza correre rischi inutili.
Sono perfettamente d'accordo. Allora, in bocca al lupo per Aida e a presto!