Vick e Axelrod con Brecht e Weill al Teatro dell'Opera

La “prima” di martedì 6 ottobre, ore 20, chiude il cartellone lirico 2014-15

L’opera di Kurt Weill su testo di Bertolt Brecht

Aufstieg und Fall der Stadt Mahagonny

nel nuovo allestimento firmato da Graham Vick

Aufstieg und Fall der Stadt Mahagonny (Ascesa e caduta della città di Mahagonny) di Kurt Weill, libretto di Bertolt Brecht, martedì 6 ottobre ore 20, chiude la stagione lirica 2014-15 del Costanzi. La regia di questo nuovo allestimento, che vedrà 5 repliche fino al 17 ottobre, è di Graham Vick, regista tra i più inventivi nel panorama odierno che per l’Opera di Roma ha recentemente firmato Die Entführung aus dem Serail (2011). Debutta alla direzione dell’Orchestra del Teatro dell’Opera di Roma il Maestro John Axelrod, Direttore Principale Ospite della Sinfonica “Giuseppe Verdi” di Milano.

L’opera di Kurt Weill (1930), dopo I was Looking at the Ceiling and Then I Saw the Sky di John Adams (1994), è parte di un percorso dedicato ai compositori del Novecento che porterà a The Bassarids di Hans Werner Henze (1965), inaugurazione della prossima stagione lirica 2015-16.

Aufstieg und Fall der Stadt Mahagonny, dopo L’opera da tre soldi, è il secondo capolavoro del sodalizio che legò Weill a Bertolt Brecht, di cui il compositore tedesco aveva sposato pienamente le idee portando nel teatro musicale temi d’attualità e soggetti a sfondo sociale.

Andata in scena all’Opera di Roma una sola volta, nel 2005, Ascesa e caduta della città di Mahagonny torna dopo dieci anni in un nuovo allestimento che vede le scene e i costumi di Stuart Nunn, i movimenti coreografici di Ron Howell e le luci Giuseppe Di Iorio.

Nel ruolo dei tre fuggiaschi fondatori di Mahagonny, la città dell’oro dove tutto è possibile, vedremo Iris Vermillion (Leokadja Begbick), Dietmar Kerschbaum (Fatty, der “Prokurist”) e Willard White (Dreienigkeitsmoses). Measha Brueggergosman sarà Jenny Hill, una delle ragazze chiamate ad allietare la vita della nuova città. Nei panni delle vittime di questa trappola vedremo Brenden Gunnell (Jim Mahoney), Christopher Lemmings (Jack O’Brien, anche nel ruolo di Tobby Higgins), Eric Greene (Bill, gennant Sparbückenbill) e Neal Davies (Joe, gennant Alaskawolfjoe). Accanto agli interpreti principali, un gruppo di 25 giovani attori sarà parte fondamentale della messa in scena. Maestro del Coro Roberto Gabbiani.

Nuovo allestimento in coproduzione con il Teatro La Fenice di Venezia e il Palau de les Arts Reina Sofía di Valencia.

Dopo la “prima” di martedì 6 ottobre (ore 20),Aufstieg und Fall der Stadt Mahagonny verrà replicata giovedì 8 (ore 20), domenica 11 (ore 16.30), martedì 13 (ore 20); giovedì 15 (ore 20), sabato 17 (ore 18). Per informazioni: operaroma.it


 

AUFSTIEG UND FALL DER STADT MAHAGONNY

 Interpreti principali

Leokadja Begbick Iris Vermillion

Fatty, der "Prokurist” Dietmar Kerschbaum

Dreieinigkeitsmoses Willard White

Jenny Hill Measha Brueggergosman

Jim Mahoney Brenden Gunnell

Jack O' Brien Christopher Lemmings

Bill, gennant Sparbückenbill Eric Greene

Joe, gennant Alaskawolfjoe Neal Davies

Tobby Higgins Christopher Lemmings

Prima rappresentazione

martedì 6 ottobre, ore 20

Repliche

giovedì 8 ottobre, ore 20

domenica 11 ottobre, ore 16.30

martedì 13 ottobre, ore 20

giovedì 15 ottobre, ore 20

sabato 17 ottobre, ore 18


Trama

Atto primo

Begbick, Trinity Moses e Fatty, inseguiti dalla polizia, fuggono con un autocarro diretti verso la Costa dell’oro. Bloccati da un guasto in una zona desertica, decidono di restare lì dove si trovano: essi stessi fonderanno sul posto una città dell’oro, la chiameranno Mahagonny e sarà un paradiso dove si potrà avere tutto: perché «gin e whisky, ragazze e ragazzi, questa è l’essenza dell’oro». I tre malfattori organizzano un’efficace propaganda ai pregi della vita nella loro città: come tante altre ragazze, Jenny e le sue sei compagne vi si trasferiscono per allietare la vita dei cercatori che nel frattempo affluiscono numerosi. Tra questi sopraggiungono Jim e i suoi amici, che si sono arricchiti dopo sette anni di duro lavoro in Alaska come tagliaboschi; Mrs. Begbick offre loro le ragazze e Jim sceglie Jenny. Ma presto nella città sopraggiunge la crisi economica. Jim contesta le già liberali leggi di Mahagonny: basta con i divieti, deve esservi permesso proprio tutto, anche soddisfare un desiderio folle come quello di mangiarsi il proprio cappello. Disgustato dalla falsità dell’ordine fondato sul denaro, Jim lo vuole sostituire con il caos di un’anarchia senza freni: mette a nudo l’ipocrisia della comunità portandone la morale alle estreme, paradossali conseguenze. Per denaro, proclama Jim, qualsiasi sopruso e qualsiasi desiderio sarà d’ora in poi lecito: mangiare, bere, prostituirsi, fare a pugni sono i suoi quattro comandamenti fondamentali. Si annuncia intanto l’arrivo di un uragano che pare sul punto di distruggere la città. Il panico e lo sconforto provocati dalla notizia della fine imminente fanno sì che le proposte di Jimmy vengano accettate: al pensiero di una catastrofe sempre in agguato per distruggere ogni cosa, concordano tutti, tanto vale vivere come se si trattasse dell’ultimo giorno della nostra vita.

Atto secondo.

All’ultimo istante l’uragano cambia miracolosamente percorso: la città è salva. Ma le leggi di Jim sono rimaste in vigore e i suoi amici ne pagano gli effetti catastrofici. Jack si rimpinza di cibo sino a morirne, mentre Joe, sul quale Jim scommette tutti i suoi averi, è sconfitto e perisce in un’impari sfida pugilistica con Trinity Moses. Disperato, Jim invita Jenny e Bill a ubriacarsi. Con un tavolo da biliardo, un’asta e un lenzuolo i tre fingono di trovarsi su una nave che veleggia verso l’Alaska, nel patetico miraggio del ritorno alla vita da tagliaboschi. Ma l’incantesimo svanisce bruscamente: Jim non ha di che pagare il conto delle bottiglie di whisky che si è scolato e nessuno, neppure Jenny, si offre di farlo; viene perciò gettato in prigione.

Atto terzo.

Ai danni di Jim viene celebrato un processo-farsa: i giudici sono i suoi stessi accusatori, Mrs. Begbick e Trinity Moses. Il crimine commesso da Jim è il più grave che si possa immaginare per Mahagonny: aver sedotto Jenny e provocato la morte dell’amico Joe sono peccati veniali in confronto a quello, imperdonabile, di trovarsi senza soldi. Solo la morte sulla sedia elettrica può lavare una simile vergogna, stabilisce la sentenza. Mentre la condanna viene eseguita, un incendio divora Mahagonny; in preda a una sorta di follia, gli abitanti sfilano in cortei di protesta con cartelli che si contraddicono a vicenda, ineggianti gli uni all’ordine gli altri alla libertà: la fine di Jim è anche quella della città.


 

Note di regia

Ogni volta che affronto un titolo mi chiedono se l’ho già fatto e se questa volta sarà differente. Allora, Mahagonny è una delle opere con cui ho iniziato. La prima volta avevo ventisette anni; ci ho lavorato con studenti dell'università di Warwick, in Inghilterra. Poi a Firenze per il Maggio Musicale nel 1990, portata anche a Parigi e a Genova. Dunque, ora è la terza volta e il mondo è molto cambiato. Se pensiamo – ad esempio – che quando ho fatto Mahagonny a Firenze non esistevano computer né cellulari, né l’euro; insomma, tutt'altra realtà: non esisteva il problema dell'immigrazione, o del fondamentalismo... Dio mio, il secolo scorso!
Comunque, il mito di Brecht e Weill sarà sempre universale; l'opposizione al capitalismo è un argomento che resta di grande attualità. E nell’Europa che prima sembra orientata a sinistra, poi a destra, in una grande confusione senza più fiducia nel capitalismo né nel socialismo, né verso la politica o la chiesa, perso ogni punto di riferimento morale, con Dio che ci ha portato in questo conflitto planetario che cosa resta da fare? Ecco lo spirito di quest'opera. Non un'opera vera e propria, piuttosto un pezzo di teatro musicale che riprende musica operistica, ma anche quella commerciale e popolare; soprattutto musica “proletaria”: troviamo tante citazioni delle marce del popolo, degli operai, e questa è la voce musicalmente più preponderante.

Ecco quindi una bella sfida, molto stimolante, se pensiamo anche a Roma, a una città che più di tutte conosce l'ascesa e la caduta, circondati come siamo qui dal passato, dall'Impero, dalle meraviglie del Rinascimento, dall’epoca del Fascismo. E in un momento storico che non rappresenta di certo una vetta per Roma, né per l'Europa intera, in profonda crisi. Il centro del mondo, dove si sta spostando? Verso Est? Verso il Pacifico? Chissà! E proprio perché ci troviamo nel momento della caduta dell'Europa, così come della “caduta” della mia vita – perché ormai la vetta è naturalmente passata –, da me sta venendo fuori uno spettacolo del tutto diverso.

Graham Vick


Il Brecht di Weill

di Fedele D’Amico

Nel 1927, invitato a partecipare al Festival di Baden-Baden con un’opera da camera di un atto, Kurt Weill pensò dapprima a mettere in musica una scena del Re Lear, quindi decise di comporre una cantata scenica su cinque ballate di Brecht che, col titolo complessivo di Canti di Mahagonny (Mahagonny-Gesänge), facevano parte del volumetto di versi Hauspostille, uscito appunto in quell’anno. Insieme con Brecht e con lo scenografo Caspar Neher, Weill abbozzò un piano molto semplice per dare all’insieme delle cinque ballate una realizzazione scenica; e Brecht aggiunse una sesta poesia («Aber dieses ganze Mahagonny»), come chiave e “morale” del tutto.

La cantata, per sei voci soliste e piccolo complesso strumentale (due violini, due clarinetti, due trombe, sassofono, trombone, pianoforte e percussione) s’intitolò Mahagonny e si definì ‘Songspiel’: bisticcio bilingue col termine tedesco ‘Singspiel’ che portò a parecchi equivoci. Molti infatti credono ancora oggi (con l’appoggio di enciclopedie, dizionari e altra autorevole pubblicistica) che il Mahagonny di Baden-Baden fosse davvero un Singspiel, cioè una commedia o dramma misto di recitazione parlata e di canto: come un Flautomagico, o un Fidelio. Era invece un semplice seguito di sei songs, cioè di sei canzoni, collegate fra loro da brevi interludi strumentali: privo di vicenda drammatica, e anche di personaggi veri e propri; sebbene i sei solisti di canto fossero stati battezzati con dei nomi (inglesi: Jessie, Bessie, Charlie, Billy, Bobby e Jimmy).

La partitura fu stesa rapidamente nel maggio 1927; e molto vagamente Weill s’ispirò, nello scriverla, alle melodie che Brecht stesso aveva già composto per le cinque ballate apparse nella Hauspostille (solo nell’Alabama-Song si possono riscontrare affinità degne di qualche rilievo). La cantata fu eseguita il 17 luglio, insieme con tre atti unici (Hin und zurück di Hindemith, Die Prinzessin auf der Erbse di Ernst Toch e L’enlèvement d’Europe di Milhaud) e incontrò un insuccesso violentissimo; nel quale non è facile, oggi, discriminare le ragioni politiche da quelle musicali. Comunque, in vita dei suoi autori (Weill,nato nel 1900, morì nel 1950; Brecht, nato nel 1898, morì nel 1955) non fu mai ripreso.

Ché il Mahagonny apparso a Parigi nel ‘32, a Roma e altrovenel ‘33, e in varie città nei primi anni seguiti alla seconda guerra (tra l’altroal Festival di Venezia 1949) non fu quello originale, ma un pasticcio messo insieme dal regista Hans Curjel contaminando il Songspiel di Baden-Baden con altri brani tratti e riadattati dall’opera Aufstieg und Fall der Stadt Mahagonny, composta nel frattempo, e sistemando il tutto in un soggetto tratto da quest’ultima.

La quale è appunto quella che la Piccola Scala ha messo in scena nella stagione 1963-64, presentandola per la prima volta a un pubblico italiano. Diquest’opera s’è parlato e si parla tuttora come di una “seconda versione” odi una versione ampliata del Songspiel di Baden-Baden. In realtà, come s’èvisto, Mahagonny non era neanche un atto unico ma soltanto una piccola cantatascenica, priva persino di un soggetto; mentre Ascesa e rovina della città diMahagonny è una vera opera, e in tre atti, sopra un soggetto che, sebbene ispiratoalle sei poesie costituenti il Songspiel (tutte accolte nel nuovo testo, con lamusica più o meno rielaborata), è sostanzialmente nuovo.Quando esattamente nacque questo soggetto, non è accertato al cento percento. David Drew, lo studioso inglese che va pazientemente scoprendo da vari anni la vera biografia di Kurt Weill (e al quale dobbiamo quasi tutte lenotizie riportate in questa nota), riferisce d’una lettera indirizzata alla Universal Edition di Vienna il 5 maggio 1927, nella quale Weill annuncia di aver già completamente elaborato il soggetto d’una «grande opera tragica». Era quellodi cui ci stiamo occupando? In questo caso l’opera e il Songspiel sarebberonati contemporaneamente, o fors’anche l’una prima dell’altro. Certo è comunque,secondo Drew, che l’estate e l’autunno 1927 Brecht e Weill lavoravano allibretto dell’opera: dunque assai prima che il loro binomio fosse cementatodal favoloso successo dell’Opera da tre soldi, andata in scena a Berlino il 31 agosto 1928.

Ascesa e rovina della città di Mahagonny fu rappresentata per la prima volta a Lipsia il 9 marzo 1930 sotto la direzione di Gustav Brecher, regista Walter Brügmann, scene e costumi di Caspar Neher; scontrandosi con l’irritazione, d’accento evidentemente politico, d’una buona parte del pubblico: tanto che durante la prima replica si ritenne opportuno tenere accese le luci in sala. Ma pochi giorni dopo ebbe successo a Kassel; e nel settembre al Festival di Francoforte (in uno spettacolo a inviti, però). Seguirono rappresentazioni in vari altri teatri tedeschi, generalmente turbate dai nazisti; un successo s’ebbe comunque a Berlino (21 dicembre 1931) al Kurfürstendammtheater ma conattori-cantanti al posto di cantanti veri e propri, il che costrinse gli autori a tagli e modifiche anche gravi (particolarmente malconcia ne uscì la parte diJenny, rifatta da cima a fondo per la moglie di Weill, Lotte Lenya).

Poi fu il ‘33, cioè Hitler; e ogni presenza di Weill o Brecht sui cartelloni tedeschi divenne impensabile. Nel ‘32 Weill aveva consentito, sia pure a malincuore, a che si desse a Parigi il pasticcio a cui abbiamo accennato, contaminazione fra il Songspiel e l’opera; e dopo l’avvento del nazismo lo portò in giro in qualche città d’Europa. Ma poi, emigrato in America, s’oppose a che s’eseguisse colà. Quanto ad Ascesa e rovina della città di Mahagonny, tacque; e corse il rischio di tacere per sempre giacché nel ‘38, compiuto l’Anschluss, una delle prime imprese della Gestapo a Vienna fu d’irrompere nella sede della Universal Edition e farne sparire molte cose di Weill, tra cui questa. Solo nel dopoguerra si ritrovò la partitura autografa, e l’opera poté rivedere la luce. Fu nel 1957: in disco, poi su scene di fortuna del Landestheater di Darmstadt. Ma in edizioni alquanto discutibili. Altre rappresentazioni seguirono in Germania, di cui la più fedele alle intenzioni degli autori sembra sia stata quella di Heidelberg (1962). Ma ancora più fedele, in quanto condotta sulla scorta delle competenti indagini di David Drew, dové essere quella allestita l’anno dopo al Sadler’s Wells Theatre di Londra, in traduzione inglese.

Di quelle indagini si è largamente giovato anche l’allestimento della Piccola Scala, a cui David Drew ha cortesemente messo a disposizione tutti i documenti di cui era in possesso. Fatto di importanza fondamentale, perché lo spartito stampato dalla Universal Edition, salvo due eccezioni, contiene semplicemente la prima versione dell’opera, quella utilizzata a Lipsia; laddove nelle rappresentazioni successive Brecht e Weill introdussero aggiunte e modifiche di prima importanza. Si trattava di scegliere dunque, caso per caso, fra le varianti possibili, sceverando quelle ispirate a ragioni d’opportunità contingenti (condizioni di questo o quel teatro, interpreti a disposizione, censura, eccetera) da quelle intenzionalmente "definitive"; nella quale impresa direttore, regista e traduttore hanno agito di comune accordo, arrivando a soluzioni che con quelle adottate l’anno prima al Sadler’s Wells coincidono per buona parte, anche se non in tutto e per tutto […].

Due uomini e una donna, in fuga davanti alla polizia, si fermano in un luogo deserto e decidono di fondare una città in cui gliuomini che tornano dalla costa dell’oro possano veder soddisfatto ogni bisogno. Nasce così questa città-paradiso, dove si conduceuna vita idillica e contemplativa. Ma alla lunga gliuomini che vengono dalla costa dell’oro non ne restano soddisfatti. Il malcontento domina e i prezzi precipitano.

Finché una notte, mentre un tifone avanza sulla città, Jim Mahoney inventa la nuova legge della città; la quale suona: «tutto ti è lecito». Il tifone devia; e d’allora in poi si vive secondo la nuova legge. La città rifiorisce, crescono i bisogni, e con essi i prezzi.

Giacché è vero che tutto è lecito, ma solo a patto di pagare. E Jim Mahoney, che rimane senza denaro, è condannato a morte. La sua esecuzione cagionerà la carestia,che annuncia la fine della città.

Così Kurt Weill stesso, in un articolo pubblicato nel novembre 1929, cioè quattro mesi avanti la prima rappresentazione. Il tema di questa parabola è dunque la civiltà fondata sul denaro. Ma la parabola non si rivolge soltanto contro gli organizzatori di questa civiltà, bensì anche contro coloro che credono di ribellarsi contro di essa accettandone, senza avvedersene, tutte le premesse. Altrimenti detto, coloro la cui ribellione è puramente eversiva e anarchica. Jim proclama la nuova legge del "tutto è lecito", e non intende che questa legge è soltanto un conato interno al sistema stesso che vorrebbe combattere. I “piaceri” che i quattro tagliaboschi reduci dall’Alaska vorrebbero raggiungere, in franchigia da ogni divieto, non sono valori umani: sono soltanto la soddisfazione di bisogni artificialmente creati, a scopo di lucro, da una società che, appunto in virtù dello scopo per cui li ha creati, è organicamente incapace di soddisfarli. Sono bisogni (il cibo, l’amore fisico, l’esercizio della forza, l’ebbrezza) proposti in completa astrazione dai loro nessi con l’uomo intero, perciò destinati a risolversi nel prezzo che si deve pagare per ottenerli. Ond’è che l’impossibilità di pagare questo prezzo si traduce nell’esclusione dalla società, anzi dalla vita: per non aver “pagato il conto” Jim è condannato a morte.

Le affinità di un testo simile con quegli spettacoli religiosi medievali che la storiografia moderna chiama “sacre rappresentazioni” sono fin troppo evidenti. Si tratta, anche qui, della rappresentazione d’un vizio, d’un “male”, che non ammette temperamenti o chiaroscuri: una realtà radicalmente demoniaca, una dannazione. La rappresentazione del caso nostro è però moderna, in quanto il male non è visto nel suo profilo subbiettivo, cioè come manifestazione della prava (e libera) volontà di un singolo, ma come frutto inevitabile d’un sistema: altrettanto vizioso nelle sue premesse come nelle sue condanne.

Ancora una volta, come in quasi tutto il primo Brecht (che nel ‘27 aveva soltanto ventinove anni; Weill ventisette), non ci vien presentato alcun “eroe positivo”, alcuna soluzione; se non per via indiretta, negativa. Tutti, a Mahagonny, hanno torto: sfruttatori e sfruttati.

In diretta relazione coll’assunto di questo testo, come di ogni altro testoteatrale di Brecht, è la sua tecnica drammaturgica; che come tutti sanno èquella del teatro epico: d’un teatro, cioè, che non si risolve nella pura rappresentazionescenica, con attori che semplicemente "incarnano" i rispettivi personaggi,ma che continuamente si distacca dalla rappresentazione attraversodidascalie pronunciate dall’autore in proprio nome, coi più vari espedienti:dalle scritte proiettate sulla scena, che annunciano e commentano gli eventiprincipali, a una determinata tecnica della recitazione che impedisce la pienaidentificazione dell’attore col personaggio, sulla base di un apparato scenicoche evita d’illudere veristicamente lo spettatore.Senonché stavolta si poneva un problema speciale: quello della musica.Giacché il testo di Aufstieg und Fall der Stadt Mahagonny fu concepito fin dagl’inizicome libretto d’opera: caso unico in tutto Brecht, perché il Lukullus,da cui il tedesco Paul Dessau e l’americano Roger Sessions trassero ciascunoun’opera, era in origine un radiodramma, di cui i successivi libretti furono soltantol’adattamento. Brecht infatti odiava l’opera; a quel modo che odiava lamusica, o per dir meglio la Musica con la maiuscola. Insomma la musica d’opera,la musica sinfonica, la musica da camera: che metteva tutta in un sacco,da Beethoven a Schönberg (Brecht trovava Schönberg indecentemente melodioso,dolciastro), ritenendola un veicolo viziosissimo di quell’irrazionale ch’erail suo nemico supremo. Amava però, o tollerava, quella che scherzosamentechiamava, in opposizione alla «Musik», la «Misuk»: ossia la musica elementare,senza pretese "colte"; e lui stesso cantava infatti strofette nei cabarets, accompagnandosicolla chitarra e senza levarsi il sigaro di bocca. Questa musica Brecht la intendeva pressappoco nel senso di coloro che, sulle soglie della civiltà, coniano leggi e proverbi in versi: diremo approssimativamente, come unfattore mnemonico. E insieme come un mezzo, sul teatro, di “estraniazione”del personaggio. Le canzoni che nei drammi di Brecht ogni tanto arrestanol’azione non hanno infatti scopo di effusione lirica, ma sottolineano riflessionie commenti del personaggio che in quel momento esce da sé stesso, si toglie lamaschera. E sono in rima e in ritmo perché meglio si scolpiscano nella mentedello spettatore, come massime da ricordare.

Ma l’opera era tutt’altra cosa; e fino a quando non si troveranno documenti che ce lo spieghino non capiremo come mai Brecht si risolvesse a scrivere un libretto d’opera. Sta il fatto, comunque, che appunto quest’occasione lo spinse a scrivere il saggio fondamentale della sua poetica del “teatro epico”: un saggio in cui il teatro epico è descritto appunto come l’antitesi dell’opera; e in cui l’esistenza di Aufstieg und Fall der Stadt Mahagonny è giustificata soltanto a mezzo, come un molto problematico compromesso, in un mare di se e di ma.

In realtà la Musica (proprio quella con la maiuscola) non è affatto quello stupefacente che Brecht credeva, ma un mezzo espressivo fondamentale dell’uomo: un mezzo specifico, naturalmente, dunque non onnipotente, non buono a "dir tutto"; ma sì ad intonarsi a qualunque cosa (come qualsiasi altro mezzo espressivo) nell’unità dell’uomo. Il che Weill dimostrò, non con delle argomentazioni ma, al pari di quel tale che alle teorie del sofista greco sull’impossibilità del moto rispose mettendosi a camminare, con i fatti: cioè con una musica che realizza le intenzioni di Brecht fino al millimetro, restando musica, musica d’opera, senza equivoci.

Per intendere ora in che modo Weill riuscisse all’impresa sarà bene partire dalla sua vocazione per la canzone (caso già di per sé più unico che raro nei compositori “seri” del nostro secolo), cercando di precisarne il senso. Nella prima opera teatrale di Weill che si conosca, Der Protagonist (composta nel 1924, rappresentata nel ‘26), la canzone è assente; tutto quel che si può rilevare in quest’opera, per stabilire un rapporto col gusto del Weill futuro, è una forte tendenza a ricostituire le cosiddette forme chiuse pur nell’ambito di un discorso musicale continuo. La canzone, e uno spirito canzonistico diffuso, spuntano invece abbastanza nettamente in Royal Palace, composta nel 1925-26, rappresentata a Berlino nel ‘27, e in Der Zar lässt sich photographieren, iniziata prima del Songspiel Mahagonny e terminata poco dopo, rappresentata a Lipsia nel ‘28 (alla Piccola Scala nel 1962). Ma sia nell’una che nell’altra di queste due opere la canzone, come la danza "moderna" con la quale spesso si fonde, è sempre sul piano della parodia, del pastiche, più o meno deformata da dissonanze, come nell’Histoire du soldat di Stravinskij (1918), o come nello Hindemith 1921-1922.

Invece dall’inizio della collaborazione con Brecht in poi non è più così: il canzonismo di Weill non è più pastiche, non è più montaggio parodistico. Dal Mahagonny ‘27 in poi (Der Zar a parte, s’intende, che come s’è visto era stato iniziato prima) Weill scrive canzonette in piena regola, capaci di finire diritte sui leggii delle orchestrine. Solo che il suo eloquio, in confronto a quello della canzonetta commerciale, è incomparabilmente più preciso e sensibile e responsabile, nutrito di complessità segrete. Pensiamo per esempio al famoso duettino, soave e amarissimo, che Polly e Mackie Messer intonano dopo il loro balordo matrimonio, nell’Opera da tre soldi. Ad ascoltarlo distrattamente, si direbbero le regolari trentadue battute del valzer-boston più orecchiabile; in realtà un penetrantissimo gioco di modulazioni ci conduce attraverso sette tonalità diverse, mentre il fraseggio sistema gli accenti ritmici con una raffinatezza sovrana. Per restare alla terminologia di Brecht: nell’apparenza di «Misuk»,è «Musik» bella e buona.

In questa duplicità è la scoperta centrale di Weill: ciò che gli permette di cogliere la realtà in modo dialettico, critico, appunto nel senso proposto da Brecht. Lo stile canzonistico di Weill non è infatti aperto a qualunque avventura, non si riferisce a un generico “liederismo” tradizionale; parte invece dalla canzone da cabaret del suo tempo, ed evoca perciò un ambiente preciso, con tutti i suoi ideali e le sue illusioni: perché quel tipo di canzone è chiaramente un relitto, il precipitato d’una crisi morale e sociale. Sono le precarie voluttà riservate a un mondo bisognoso di comprarsi un’evasione purchessia. Affrontandola e costringendola a dare la quintessenza di sé stessa, non per questo Weill ce la rappresenta capace di mantenere quel che promette: non per questo i surrogati di felicità offerti dalla canzone divengono, nelle sue mani, felicità vera. Se l’intensità a cui è portato il suo linguaggio parrebbe accertarci della verità dei sentimenti che è chiamato a esprimere, gli stereotipici lustrini del formulario da locale notturno che tuttavia lo percorre ce li denuncia contemporaneamente utopistici, nutriti di illusioni.

Ecco perché l’incontro con Brecht fu per Weill tanto fecondo; sì che i sette anni trascorsi, più o meno, sotto il segno della collaborazione con lui furono senza confronto i più significativi della sua carriera (e vorremmo dire i soli; se la nostra conoscenza del suo periodo americano non fosse così lacunosa). Senza dubbio, credere che il musicista fosse l’equivalente dello scrittore, o magari il suo "traduttore", sarebbe molto ingenuo: molte cose li dividevano, anche sul piano del gusto; a prescindere dal fatto che un’arte non è mai “traduzione” di un’altra arte.

E tuttavia il procedimento di Weill che abbiamo cercato di descrivere, quel suo additare un’alienazione nell’atto stesso di esperirla, quel suo calarsi dentro una Stimmung facendone contemporaneamente la critica, è effettivamente il solo caso, in musica, che si possa far corrispondere alla poetica che Brecht perseguiva nel suo teatro; giacché nulla di simile raggiunsero mai, fra i musicisti, neanche quelli che, dopo la separazione da Kurt Weill, divennero i suoi collaboratori stabili, cioè Paul Dessau e Hanns Eisler.

Oltre che per Mahagonny, L’opera da tre soldi e Ascesa e rovina della città di Mahagonny, Weill collaborò con Brecht mettendo in musica nel ‘29 la cantata radiofonica Das Berliner Requiem, la piccola opera per le scuole Der Jasager (Colui che dice di sì), il radiodramma Il volo di Lindbergh (in collaborazione con Hindemith) e i songs della commedia Happy End; nel ‘31 le canzoni del dramma Un uomo è un uomo; nel ‘33 il balletto cantato I sette peccati capitali. In alcuni di questi lavori la canzone è onnipresente in proprio nome; in altri, là dove, letteralmente parlando, non compare, ne è più oeno presente lo spirito.

Questo è il caso, soprattutto, di Ascesa e rovina della città di Mahagonny; dove i songs veri e propri sono molto pochi, ma dove uno stile comunqueomogeneo a quelli emerge un po’ dappertutto: nella partenza spavalda dell’ideamelodica, nei ritmi di ballabile o di marcia da circo, nell’immancabile tendenzaalla strofe. E anche, last but not least, nello stile di canto; che da un latorichiede agl’interpreti estensione vocale, fiati, volume, quali solo il cantanted’opera possiede, dall’altro esige per lo più (non sempre) un’emissione piùtrattenuta e asciutta, meno timbrata, insomma prossima a quella caratteristicadel cantante "dicitore".

Senonché quel che soprattutto guida quest’opera non tanto è lo stile quanto la poetica della canzone, intesa nel senso che abbiamo cercato di spiegare. Si fosse semplicemente trattato di trasporre quello stile in strutture "operistiche", il risultato sarebbe stato certamente il pastiche: con l’alternativa fra la parodia e l’inflazione sentimentale. Ma per Weill il richiamo a quello stile valeva solo in quanto veicolo a esprimere la sua poetica "alienante": entrare nella pelle di personaggi che in quello stile simboleggiano i loro ideali, per riuscirne continuamente, a mostrarceli delusi. Appunto questa poetica, non il formalismo d’uno stile qualsiasi, guidò la sua invenzione; che perciò riuscì ad avventurarsi in strutture anche parecchio complesse, sempre azzeccando esattamente quelle che convenivano, come accade solo quando si è stimolati, e insieme controllati, da un principio unitario.

Il che spiega anche il senso di questo clamoroso ritorno alle forme musicali chiuse, e nettamente vocali, dell’opera tradizionale, con sconfessione completa del "dramma musicale" instaurato da Wagner e da cento altri proseguito nei modi più diversi. Da questo punto di vista Weill è qui vicinissimo all’opera tradizionale: incomparabilmente più vicino, non diciamo di qualsiasi compositore germanico postwagneriano, ma di un Puccini. Ora, se questo da un lato attesta che certi mezzi espressivi, periodicamente dati per defunti, possono ridiventare vitalissimi a fare l’ufficio loro, dall’altro non deve essere scambiato come un gratuito e immotivato "ritorno al passato". L’uso di quelle forme, in Weill, trovava la sua giustificazione nelle precise ragioni della sua molto "attuale" poetica (come dovrebbe avvenire, del resto, di qualsiasi forma; non essendo minimamente dimostrato, per esempio, che un qualunque modo di scrivere

opere sia in linea di principio più o meno "attuale" che il modo con cui fu scritto Il trovatore). Abolito infatti, della vecchia opera, il recitativo, e sostituito con gli arnesi "epici" di Brecht, nella struttura a forme chiuse Weill individuò il mezzo più naturale per realizzare un teatro costituito non di azione continua ma di situazioni successive, da contemplare e commentare ciascuna per sé, recuperando continuamente lo spettatore dalla tentazione di identificarsi sentimentalmente nel flusso d’una vicenda ininterrotta.

Due anni dopo quest’opera, Weill ne dette un’altra di analoghe ambizioni: Die Bürgschaft (Il pegno), su libretto di Caspar Neher. E fallì: principalmente perché il libretto era nient’altro che un coacervo di motivi brechtiani, in una narrazione lenta e svagata, senza nerbo. Poi fu il trionfo nazista, e 1’emigrazione negli Stati Uniti: dove le condizioni per far nascere un’opera lirica, non che un’opera come quella che Weill aveva vocazione di scrivere, erano quelle che erano. Ascesa e rovina della città di Mahagonny rimase un unicum; ma un unicum in cui molti scorgono, con chiarezza sempre maggiore, uno dei capolavori del teatro musicale del nostro secolo.