di Andrea R. G. Pedrotti
Lucia di Lammermoor inaugura la stagione del Filarmonico nel giorno di Santa Lucia, festa della luce dopo la notte tradizionalmente più lunga dell'anno. Una data simbolica che ben si adatta, al di là dell'omonimia, alle atmosfere spettrali del capolavoro donizettiano, ma anche all'esito dello spettacolo, che a un allestimento che offriva ben poco alla vista contrapponeva una resa musicale di luminosa qualità.
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VERONA, 13 dicembre 2014 - Lucia nell'ombra nel giorno di Santa Lucia; ombre sotto forma di apparizioni nelle terre di Lammermmor, ombre di pena, ombre di minaccia, ombre di crudeltà, ombre di insostenibile dolore unite nella follia della mente afflitta della giovane Ashton. Ombre che travolgono spirito e anima fino agli eccessi di eros e thanatos: amore e morte sono, infatti, le cifre distintive del più classico dei melodrammi romantici del XIX secolo.
Ombre registiche caratterizzano una messa in scena fin troppo spoglia di elementi: un semplice telo appeso sulla sommità del palco proietta gli uggiosi cieli scozzesi dalla torre scenica del Bibbiena scaligero: che sia attraverso le frasche dell'iniziale battuta di caccia, nell'oscurità lunare della sortita di Lucia, o dalle grandi finestre del maniero che la genìa di Enrico strappò ai legittimi proprietari. In questa Lucia cupa non solo la famiglia di Ravenswood è fatta orba delle proprie pietre, ma anche gli spettatori, accorsi numerosi ad assistere all'inaugurazione della stagione invernale 2014\2015 della fondazione lirica Arena di Verona. Cieco, ma non sordo, per buona sorte, il publico tutto ha potuta ascoltare una Lucia di Lammermmor di alto livello qualitativo e di interpreti musicali fra i migliori a noi contemporanei. Buona parte del merito del successo finale va alla sventurata coppia di amanti, con un Piero Pretti, che di recente, con il suo Edgardo, ha calcato anche il palco del Piermarini, e a una straordinario Irina Lungu, che, al debutto, si pone immediatamente fra i riferimenti del ruolo donizettiano.
Poco o nulla si può dire una regia che pochissimo ha da raccontare e mostrare, allontandosi più volte persino da una forma semi-scenica e accostandosi maggiormente a quela concertante.
Il regista, Guglielmo Ferro, sembra quasi non essere intervenuto: non è presente alcun movimento scenico degno di nota e nessuna idea registica accompagna i versi di Salvadore Cammarano. I cantanti fanno il loro con mestiere, esperienza e professionalità, ma Edgardo non può confrontarsi, nell'insano ardir del finale primo della seconda parte, con masse corali che restano immote, come, persino, quando egli, forsennato, risolverà di togliersi la vita per ricongiungersi all'alma dell'amata. Gli interpreti sono portati perennemente a posizionarsi in proscenio, spesso schierati, e illuminati da luci piuttosto anonime, poco appropriate al sentire del dramma e dello struggimento in atto. Sulla scena poche pietre nell'introduzione, elementare mobilio nel primo atto e nel secondo, fuorché nel finale quando sul palco del Filarmonico fanno la loro apparizione le diroccate tombe degli avi di Edgardo. Belli i costumi di Françoise Raybaud, d'ambientazione romantica, i quali, per sottolineare l'atmosfera grigia e scura dell'anima, si uniformano simbolicamente all'ideale cromatico dell'intima tragedia, che mai vedrà schiarirsi il proprio orizzonte fra le nebbie scozzesi.
Se l'aspetto visivo ha deluso, lo stesso non si può certo dire per quello musicale, anche se l'intero pomeriggio sembra cominciare con una certa tensione, rotta solamente dallo spezzarsi di una corda dell'arpa (prontamente sostituita), all'interno del golfo mistico, proprio durante l'assolo che precedeva la celeberrima aria “Regnava nel silenzio”. Marco di Felice delinea un Lord Enrico di Ashton sicuro, in crescendo nel corso della recita, estremamente penalizzato dalla pochezza della regia, ma che il baritono italiano riesce a portare a un buon successo di pubblico. Estremente positiva la prova di Insung Sim (Raimondo), dotato di bel timbro, bella espressione e corretta pronuncia italiana. Per lui meritata ovazione al termine di “Dalle stanze ove Lucia “.
Piero Pretti è un ottimo Edgardo, in crescendo come Di Felice, fraseggia benissimo per tutto il sestetto e la maledizione, canta con passione il duetto della torre, giungendo a un “Tombe degli avi miei” squillante e proiettato con buona tecnica, ma anche alchemicamente dosato nella miglior maniera con un impeto giovanile e disperato. Tutto questo nonostante debba contare esclusivamente sulla propria abilità scenica, senza alcun supporto registico efficace.
Capitolo a parte dovrebbe essere dedicato al debutto di Irina Lungu nel ruolo eponimo. Anche lo scorso anno la stagione del Filarmonico fu inaugurata dalla stessa cantante con un ruolo donizettiano (Norina nel Don Pasquale), ma, da un lato, i progressi del soprano russo negli ultimi dodici mesi, dall'altro il fatto che Lucia di Lammermmor è un titolo che si sposa al meglio con le sue attuali caratteristiche vocali, rendono la sua prova ancor più importante della bella prestazione della passata stagione. La Lungu giganteggia sul palcoscenico fin da “Regnava nel silenzio”, mantenendo un tono lirico, senza alcuna pecca nelle agilità. Il fraseggio è curatissimo in ogni assieme o duetto, non una sillaba è spesa casualmente e ogni accento è finemente sottolineato con sicurezza e raffinatezza. Non un tratto di freddezza nella sua linea vocale, ma, a differenza del personaggio che portava in scena, i suoi nervi si mantengono glaciali, non facendo trasparire alcun accenno di tensione. Chi, sbagliando, si rechi ad assistere a Lucia di Lammermmor attendendo la scena della pazzia non può certo dirsi deluso. Forse la fama del brano, forse il fatto che questa scena non sia altro che l'epilogo della fragilità della giovane, che, comunque, narra di fantasmi e apparizioni già al suo apparire e nell'enunciare poeticamente l'antefatto afferma di sentirne la presenza. Tralasciando le ipotesi e attenendosi saldamente ai fatti, “Il dolce suono” di Irina Lungu è certamente uno dei migliori ascoltati, non solo recentemente; la cadenza è eseguita con gran precisione e il Mib conclusivo è sicuro e centrato al meglio. La voce corre in teatro in tutti i registri vocali, senza che la bellezza del timbro venga mai meno, arricchita da colori cangianti con l'espressione. Spesso capita di ascoltare soprani che gonfiano i suoni o scuriscono eccessivamente la voce per ovviare a una carenza nei gravi, carenza tecnica ignota alla signora Lungu, che palesa una disarmante sicumera in tutta l'ampiezza del pentagramma. La scena si conclude con una cabaletta in linea con le battute che l'hanno preceduta, impreziosita da una prova attoriale notevolmente intensa, mai svenevole e di gran carattere.
Quando si parla di fondazione lirica Arena di Verona, non si può mai tralasciare un elogio al coro, che, come sempre, si presenta al suo pubblico sontuoso e maestoso come pochi altri in Italia, tanto da contribuire in buona parte al successo della serata, grazie al suo colore caldo e omogeneo. Coro guidato dal maestro Salvo Sgrò, in attesa della nomina del successore di Armando Tasso, all'inizio del prossimo anno.
Sul podio Fabrizio Maria Carminati sceglie una concertazione in linea con il senso drammatico dell'opera, senza cedere a gorgheggi o vizi di coloratura fine a se stessa. La sua bacchetta segue e asseconda gli interpreti con decisa scelta dinamica, ma senza imposizioni interpretative che vadano oltre il carattere o le caratteristiche degli artisti.
Completano il cast Elisa Balbo (Alisa), Francesco Pittari (Normanno) e Alessando Scotto Di Luzio (Arturo). Le scene sono di Stefano Pace, le luci di Bruno Ciulli, aiuto regista e video-assist, Massimiliano Pace. L'allestimeno è del Teatro Massimo Bellini di Catania, il direttore deglia allestimenti scenici è Giuseppe De Filippi Venezia.
foto ENNEVI