di Francesco Bertini
Dopo le recite rodigine, fa tappa a Padova fra i festeggiamenti di fine anno La vedova allegra nell'allestimento di Hugo De Ana, questa volta diretto con tinte cangianti, levità e nerbo da Giampaolo Bisanti.
PADOVA, 29 dicembre 2014 - La breve ma intensa stagione lirica del Teatro Verdi di Padova si chiude con il 2014. A siglare l’anno è La vedova allegra che ha già superato il secolo di vita (risale al 30 dicembre 1905 la prima esecuzione al Theater an der Wien di Vienna) stando costantemente sulla breccia. Il successo arriso a quest’operetta di Franz Lehár inaugura l’opulenta e decadente stagione, precedente la prima guerra mondiale, permeata dal grande interesse per questo genere. Il connubio di alcuni temi intramontabili, trattati con armonia e leggerezza, rende lo spettacolo fluido e attraente per il pubblico il quale si compiace di ammirare in scena artisti capaci di cantare, recitare e danzare come prevede la scoppiettante trama. La produzione patavina, presentata nel 2009, è una ripresa prodotta dal circuito della Lirica veneta (Li.Ve.) che vede uniti nello sforzo i comuni di Padova, Bassano del Grappa e Rovigo.
L’argentino Hugo De Ana cura regia, scene, costumi e luci mentre le coreografie, in quest’occasione, sono affidate a Claudio Ronda. Come già sottolineato, per la recente riproposta rodigina, l’operetta rivive tra paillettes, grisettes e scritte luminose. Un’imponente costruzione mobile di vetro occupa la scena, invasa in più momenti da gentlemen, ragazze facili, vecchi ricordi cinematografici (i tre fratelli Marx) e cascamorti. L’allestimento è un sunto delle caratteristiche peculiari di De Ana: conquista per l’opulenza, affascina per le idee ma lascia perplessi per alcuni rimaneggiamenti. Il gusto per il colore emerge nei costumi sgargianti, nella scena del terzo atto invasa di luci, ombre, scritte appariscenti, filtrate dalle lastre della strana costruzione che deforma e espande lasciando intravedere sullo sfondo arabeschi liberty. D’altro canto, anche in questa ripresa vengono proposte alcune trovate che appesantiscono, dilatano, spesso eccessivamente, le parti recitate, spostano brani, per esigenze registiche, da un atto all’altro, inseriscono citazioni da differenti lavori di Lehár (l’operetta Frühling per la precisione), riscrivono il testo con esiti alterni. L’attuale messinscena, non curata direttamente da De Ana e dissimile per certe scelte dall’originale, indebolisce l’effetto catalizzatore suscitato al debutto della produzione. Non è la ridondanza a creare impaccio ma l’incapacità di sfruttare, con rodata convinzione scenica, le battute previste nel testo e le gag ideate per lo spettacolo. Questa frammentarietà spezza lo scorrere fluido dell’operetta sulla quale rischia di abbattersi un’uniformità priva di dinamismo e brillantezza, nonché la scarsa definizione dei rapporti delineati dalla vicenda.
Gli interpreti sono i medesimi della recente produzione rodigina, inoltre, per la maggior parte, ricalcano il cast dell’edizione 2009. Tra le parti principali ritroviamo Alessandro Safina, Conte Danilo Danilowitch, e Daniela Mazzucato, Valencienne. Il primo conferma una disinvoltura scenica, assecondata dalla figura slanciata e fascinosa, che riscatta, per quanto possibile, la deficitaria prova vocale. La seconda, senza tema della pluridecennale carriera, affronta nuovamente uno dei ruoli che l’hanno resa celebre. Il soprano veneziano veste con eleganza tanto i panni della moglie dell’ambasciatore quanto quelli, più accattivanti, della grisette. Balla, recita e canta con l’intelligenza dovuta a una brillante maturità artistica. Anche tra i cosiddetti secondi ruoli, definizione scomoda in un’operetta che non risparmia nessuno, vi sono numerosi volti noti. Giuliano Scaranello, vivace e spiritosissimo Capitano Kromow, Stefano Consolini, camaleontico Pritschitch, e Matteo Ferrara, allegro Bogdanowitsch, danno vita al trio dei fratelli Marx impegnati a farsi valere come mariti rispettabili. Dario Giorgelè, Visconte Cascadà, e Max René Cosotti, Marchese de St. Brioche, sono inscindibili l’uno dall’altro. Mentre Giorgelè sfodera una vivacità attoriale capace di mascherare qualche cedimento vocale, Cosotti gioca a carte scoperte, in un repertorio frequentato a lungo, risultando spontaneo e piacevole nei panni del nobiluomo francese. Daniela Schillaci è un’Hanna Glawari dalla fluida presenza scenica. Il soprano si muove sul palcoscenico e si confronta con gli altri interpreti con stimabile naturalezza. Per quanto attiene la sua prestazione si notano alcune problematicità nel registro acuto, non sempre timbrato, intonazione alle volte imprecisa e dizione emendabile. L’amante Camille de Rossillon è lo spagnolo David Ferri Durà. Il tenore risulta poco incisivo, spesso in difficoltà per la scrittura che estrinseca i limiti del fraseggio, dell’omogeneità e della proiezione, specie in occasione dell’ascesa del pentagramma.
Nei panni del Barone Zeta il basso baritono Nicolò Ceriani si produce in una prova efficace per presenza scenica ma discontinua per resa canora. Ugo Maria Morosi, attore che vanta una lunga frequentazione del repertorio operettistico, dà vita al cancelliere Njegus con arguta consapevolezza dei tempi teatrali e abile valorizzazione del personaggio. A suo tempo De Ana volle tre dive del panorama lirico per interpretare i ruoli marginali di Sylviane, Olga Kromow e Praskowia. A Padova sono impegnate rispettivamente Annalisa Massarotto, Giovanna Donadini, spassosa e spontanea come sempre, e Elisabetta Battaglia. La ripresa conserva i siparietti loro affidati: le tre si cimentano con citazioni operistiche (Faust, La Gioconda) e, nel terzo atto, con lo spumeggiante duetto, trasformato in terzetto, di Hanna e Danilo “Heia, Mädel, aufgeschaut” (“Haia, fanciulla, alza gli occhi”, trasformato, nella versione De Ana, in “Ahi te, vieni un po’ a guardar”). Il travolgente finale offre il riscatto muliebre con il testo “È impossibile l’uomo cambiar” mentre sul pubblico cadono volantini inneggianti la rivoluzione e variopinte stelle filanti.
La concertazione di Giampaolo Bisanti coglie l’eleganza della scrittura di Lehár. Il direttore milanese non si limita ad offrire un tessuto sonoro per i solisti ma imprime all’operetta una personale interpretazione. Ne sortisce una lettura capace, all’uopo, di levità e nerbo come pure di tinte cangianti e apprezzabili. La performance dell’Orchestra di Padova e del Veneto è riscattata dalla recente maggiore dimestichezza con il repertorio lirico.
Pur non essendo del tutto esente da problemi di coesione e intonazione, se la cava il Coro Li. Ve istruito da Dino Zambello.
Il pubblico reagisce con scarsa convinzione, durante la serata, salvo alcuni momenti che fanno scaturire qualche sorriso, seguito da applausi. Solo al termine i consensi travolgono tutti gli interpreti in un festante tripudio generale.
foto Nicola Fossella