di Roberta Pedrotti
G. Rossini Ciro in Babilonia
Podleś, Pratt, Spyres, McPherson, Romeu, Palazzi, Costantini
direttore Will Crutchfield
regia Davide Livermore
Orchestra e coro del Teatro Comunale di Bologna
Pesaro, Rossini Opera Festival, agosto 2012
DVD Opus Arte OA 1108 D, 2013
Ciro in Babilonia ha debuttato a Pesaro solo nel 2012, ma lo ha fatto in gloria. Fra le opere rossiniane di cui non è stato rinvenuto l'autografo, era la penultima ad attendere ancora una ripresa sui lidi natii dell'autore (resta ora solo Aureliano in Palmira, in programma per l'estate 2014) e difficilmente avremmo potuto immaginare un esordio migliore, che permettesse di godere appieno e di portare al massimo onore un'opera che rappresenta un frutto ancora acerbo della pianta che di lì a poco offrirà Tancredi e poi i capolavori napoletani, pur non mancando di pregi e motivi d'interesse per appassionati e studiosi. Fra questi la doppia aria di Ciro in attesa del supplizio, incunabolo della futura Gran Scena, e una sorta di fecondissimo brodo primordiale in attesa di compiutezza formale, ma nel quale, oltre all'ouverture dell'Inganno felice, si riconoscono cellule, temi e microtemi si erano ascoltati già in Demetrio e Polibio e nell'Equivoco stravagante. Questi ed altri torneranno, per esempio, in Tancredi, nel Turco in Italia, in Elisabetta regina d'Inghilterra, nella Morte di Didone e la prima aria di Amira sarà quella di Amaltea in Mosé in Egitto. Per godere del Ciro è fondamentale la presenza, almeno nei tre ruoli principali, di autentici fuoriclasse del belcanto, condizione realizzata a meraviglia da Ewa Podleś, Jessica Pratt e Michael Spyres. Il contralto polacco s'impone con un'autorevolezza stupefacente, un fraseggio sbalzato con accento plastico, un'incarnazione del sovrano eponimo giustamente matura, ma anche autoironica, capace di giocare con gli schemi, gli stereotipi, le formule del melodramma. Voce corposa, di metallo unico, soggiogante, piegata nel legato e nelle fioriture più minute come nell'agilità di forza, per l'estensione miracolosa ricorda come forse nessun'altra quello che doveva essere il mito del contralto all'epoca di Rossini, con gravi bronzei e virili e acuti sfavillanti e cristallini, a un'omogeneità timbrica che diverrà obiettivo estetico solo più recentemente preferisce la spettacolarità e la varietà che uno strumento come questo può garantire. Sfavillante al suo fianco l'Amira di Jessica Pratt, una vera regina, elegantissima, musicista e stilista impeccabile. Le variazioni, raffinatissime, sono ricamate con classe rara, il legato come la coloratura splendono di bagliori madreperlacei, il canto è morbido e mordente, con sovracuti mai gratuiti ed esibiti, piuttosto gemme iridescenti iscritte in un arabesco cesellato con arte minuziosa. Michael Spyres, Baldassarre, non è da meno e canta come nessun tenore oggi in Rossini non solo per spavalderia e incisività che non temono le tessiture più scabrose e l'agilità di forza più spericolata ma anche per la capacità di fraseggiare, dare accento senso e colore in un'interpretazione elettrizzante. Trova il suo momento clou nella lunga scena di delirio del secondo atto, un banco di prova che si rivela uno dei vertici di tensione dell'intero spettacolo. Anche i ruoli minori si fanno valere, a partire dalla presenza di lusso di Mirco Palazzi come Zambri, capace di venire a capo con disinvoltura anche dell'acutissima sortita; Robert McPherson, Arbace, Carmen Romeu, Argene (la destinataria della celebre aria mononota “Chi disprezza gl'infelici”), e Raffaele Costantini, il profeta biblico Daniello (Daniele), completano efficacemente la sfolgorante locandina. Li guida, come i complessi del Comunale di Bologna, Will Crurchfield, direttore preciso, attento e appassionato.
Per godere del Ciro è fondamentale anche un'idea registica che ne giustifichi e rianimi la drammaturgia. Per permettere l'esecuzione dell'opera in periodo di Quaresima il librettista Francesco Aventi inserì la parentesi biblica del prodigio che interrompe l'orgia babilonese e della profezia di Daniele, ma il soggetto, con la sua soluzione sbrigativa ai limiti dell'incomprensibile, resta un classico lavoro di mestiere in cui topoi consolidati si combinano alla maniera delle funzioni di Propp, mentre si appagano le varie convenienze teatrali. Davide Livermore coglie un parallelismo con il cinema muto, le sue dinamiche, il divismo, la spettacolarità, le suggestioni storiche ed esotiche, con la gestione stessa del tempo, che nella recitazione senza parole come nel canto è alterato nelle sue naturali percezioni, dilatato, iterato, o accelerato per ellissi. Dalla combinazione di questi due codici espressivi, cinematografico delle origini e operistico, nasce uno spettacolo colto e ironico, intelligente, che purtroppo la ripresa televisiva non rende in tutto il suo splendore, nella ricchezza di stimoli, dettagli, citazioni e rimandi. Senza che l'allusione alteri l'equilibrio musicalissimo, la misura e la linearità stilistica d'insieme, si vedono, e ancor più si vedevano dal vivo, la belle époque e il futurismo geometrico della Thais di Bragaglia, Cabiria di Pastrone, Petrolini, Sordi, Ustinov, Francesca Bertini, Lyda Borelli, Lina Cavalieri fino al Woody Allen della Rosa purpurea del Cairo. Purtroppo nelle inquadrature non è possibile gustare sempre le didascalie proiettate (di grande efficacia le elaborazioni video di D-WOK e le scene di Nicolas Bovey) che rendevano perfettamente intellegibile la vicenda e questo peccato è ancor più evidente per la sciagurata mancanza di sottotitoli e testi in italiano sia nel video sia nel fascicolo allegato. Un'assenza ancor più grave per un'opera come questa, italiana e d'autore italiano, rappresentata nel maggior festival del nostro paese, di rarissima esecuzione e in prima registrazione assoluta in video. Non si tratta di campanilismo, ma di riconoscere il valore della nostra musica e della nostra lingua per tutta l'umanità, che invece si vede negato il diritto di poter seguire il testo cantato originale. Non patiscono il video, anzi splendono più belli che mai nei più minuti dettagli, i preziosissimi costumi di Gianluca Falaschi, un trionfo di fantasia, gusto, ironia ed eleganza che esaltano le figure di tutti gli interpreti, dai protagonisti ai coristi e ai figuranti, tutti trattati come personaggi autonomi ben definiti. Meritano, anzi, una lode speciale gli artisti del coro, che esibiscono una presenza attoriale non inferiore a quella, notevolissima, dei solisti e dei mimi professionisti. Invero, se qualcosa necessariamente dal teatro al DVd va perduto, i primi piani rendono giustizia alla mimica straordinaria di tutti gli interpreti, al fascino altero e alla sofisticata partecipazione della Pratt, alla regale gustosa ironia di Podleś e Spyres: ora irresistibili ora tragicamente intensi, in un equilibrio impagabile che non degenera mai in farsa o, viceversa, seriosità.
Lamentata la questione dei sottotitoli e segnalata la mancanza di lista tracce e, come anche per la Matilde di Shabran edita parallelamente dalla Decca, di interviste e dietro le quinte che sarebbero stati certo graditi, non possiamo non consigliare caldamente quest'ultimo DVD dal Rossini Opera Festival: un'opera rara, cantata come meglio non si potrebbe da artisti completi che sono anche grandissimi attori in uno spettacolo di grande bellezza visiva e intelligenza.