di Roberta Pedrotti
Gounod si diverte e gioca a fare l'Offenbach, ma soprattutto dimostra il suo spirito e la sua raffinatezza in una leggiadra miniatura ispirata a Boccaccio e capace di stregare Stravinskij. Con l'agile regia di Denis Krief, la raffinata direzione di Philip von Steinaecker e un cast agguerrito l'inaugurazione della settantesima Settimana Musicale Senese è un successo.
SIENA, 9 luglio 2013 - Charles Gounod, il buon cattolico, versato alla musica sacra, compositore colto, noto per aver tradotto di sentimentale opéra lyrique Goethe (Faust) e Shakespeare (Roméo et Juliette). Una sintesi, questa, che può servire ad usum studentium o come formuletta per riempire una cronaca generalista, ma che non rende piena giustizia all'artista, per conoscere veramente il quale è necessaria l'esperienza d'altre pieghe della sua opera, fra generi diversi, successi e insuccessi. Talvolta un piccolo cameo quasi cameristico può rivelare più degli ampi panneggi consacrati al palcoscenico dell'Opéra e alle sue straordinarie risorse, né bisognerebbe dimenticare che lo stesso Faust nacque in realtà (avant Sedan) come opéra comique e venne poi rivisitato con forme tardo grandoperistiche solo in seguito (après Sedan, il grande spartiacque della storia francese del XIX secolo).
Proprio contemporanea alla nascita del primo Faust (1859) è la gestazione della Colombe, anch'essa di nobili lombi letterari, ascendendo attraverso La Fontaine al Federigo degli Alberighi boccaccesco (Decameron, V,9) ma alleggerita nell'elisione della vedovanza dell'amata e della successiva morte del di lei figlioletto per malattia e per il dolore del mancato possesso del bel falcone di Federico, sacrificato alla mensa per doveri di ospitalità. La bella, ribattezzata Silvie, è semplicemente una dama ricca e capricciosa, il pregiato volatile una colomba bianca con la quale far rodere d'invidia una rivale che nei salotti si pavoneggia del suo esotico pappagallo. Nulla di più fatuo per ricollocare la nobile vicenda cavalleresca, e infatti l'operina ha una levità deliziosa, tutta ésprit de finesse di scrittura. Si direbbe, e non a torto, che Gounod gioca a fare l'Offenbach, ma lo fa – benissimo – con un sorriso, rivelando piuttosto la propria vena lieve e sentimentale, perfino comica, più autentica. La scrittura orchestrale è, infatti, preziosa e profuma delle notti di Roméo e Juliette, così come terzetti e quartetti, delicatamente lirici e madrigalistici. Altrove, specie nelle ariette dei due servitori, si sviluppa quel senso dell'ironia e del grottesco che avevamo imparato a conoscere già nelle opere più celebri. La prima interprete di Mazet, garzone di Horace, fu Amélie Faivre, creatrice anche di Siebel, di cui può riecheggiare soprattutto la romance del quarto atto, ma riconosciamo soprattutto l'ombra del paggio Stéphano quando s'indirizza alla “blanche touterelle”. L'arietta misogina, poi specularmente ripresa anche contro la stupidità maschile, ha però una verve sanguigna che fa il paio non solo con le provocazioni del giovane partigiano dei Montecchi, ma anche con il carattere di Mercutio e, soprattutto, con lo spirito irriverente di Méphistophélés. Quest'ultimo ebbe come primo interprete Émile Balanqué, cui spettò al debutto anche Maître Jean, servitore di Silvie, che nella sua bonomia non risparmia effettivamente qualche ammiccamento demoniaco perfino nell'aria gastronomica che apre il secondo atto.
Tanto gusto nel riprendere un soggetto emblema di antichi valori cavallereschi nel contesto nelle mode e dei capricci parigini, con qualche ambiguità ma debito lieto fine a coronamento dei nobili sentimenti di Horace, tanta levità nel gestire lirismo e ironia surreale, tanta maestria compositiva, fin calligrafica, non mancò di colpire nel segno, se ancora negli anni venti del secolo scorso destò l'interesse di Stravinskij, che la raccomandò a Djagilev come un “piccolo capolavoro” e ne organizzò con questi una ripresa affidando a Poulenc la realizzazione dei recitativi, parlati nell'originale come da prassi. È questa la versione che ascoltiamo oggi a Siena, apprezzando proprio come questi recitativi non appesantiscano in nulla l'azione, anzi, s'integrino alla perfezione con la stesura originaria, senza scimmiottarne lo stile, ma, nel contempo, senza alterarlo con contrasti fuori luogo. L'opera emerge in tutta la sua fresca bellezza, e tutto concorre a valorizzare questa piccola gemma, incastonandola in un contesto di fascino incomparabile. Cosa può essere paragonato, infatti, a costeggiare San Domenico, attraversare via di Città, poi Piazza del Campo, l'Entrone, ed entrare in un teatro collocato nel cuore di uno dei palazzi più belli del mondo? Cosa a uscire dopo la recita e vedere la Piazza nella notte sotto le stelle?
Certo, bisogna onorare tanto splendore, non adagiarsi sull'amenità del luogo, e con pochi mezzi l'Accademia Chigiana, per l'inaugurazione della sua settantesima settimana musicale, dimostra di saper rendere piena giustizia alla partitura e confezionare uno spettacolo impeccabile. Denis Krief, habitué del festival toscano, ha il dono di saper veramente far teatro con nulla: tre pannelli semitrasparenti, un minimo di attrezzeria e un ottimo gioco scenico. Voilà tout! E, soprattutto per La colombe, è perfetto. L'Orchestra Regionale della Toscana è sempre un eccellente complesso e Philipp Von Steinaecker una bacchetta acuta e preziosa, che non perde mai di vista arguzia e precisione, lirismo e brillantezza. Con queste premesse il cast non fatica a imporsi con un impeccabile gioco di squadra, sia musicale sia teatrale, in virtù anche di physique du rôle ideali e di pesi vocali ben equilibrati: Laura Giordano ricorda un po' la coquetterie vocale di Luciana Serra e risulta una Silvie azzeccatissima nella sua ambiguità sentimentale, finta ingenua, dissimulatrice, con un fondo d'umanità che, quando si palesa, non sapremmo mai dire quanto sia sincero. Sincerissimo è, senza dubbio, l'Horace di Juan Francisco Gatell, nobile, elegante nel suo schietto canto da tenore di grazia di stampo latino. Più terrigna l'emissione di Laura Polverelli, che sfodera tutta la sua verve d'attrice come Mazet, e sempre di grande interesse la qualità baritonale e la personalità di Filippo Polinelli. Il successo è convintissimo, anche se il Teatro dei Rinnovati non è certo esaurito, ma resta il rammarico che in solo due serate sia finito tutto, perché un'opera così agile e preziosa, così ben rappresentata ed eseguita, meriterebbe almeno una qualche testimonianza e una maggior circolazione.