di Roberta Pedrotti
Il primo centenario della nascita di Verdi fu celebrato a Busseto, nel teatro che il maestro non voleva, con un Falstaff diretto da Toscanini. Ora, un secolo dopo, lo stesso allestimento dell'ultimo capolavoro del genius loci torna in scena nello stesso paese natale, con un cast di giovani e, ancora, una bacchetta preparata e talentuosa, quella di Sebastiano Rolli. Quel che non funziona, purtroppo, è proprio il protagonista (nonché regista e mentore della compagnia), un Renato Bruson decisamente fuori tempo massimo.
BUSSETO, 17 ottobre 2013 - La trasmissione diretta dell'esperienza, soprattutto nelle arti e negli artigianati, è un tesoro inestimabile, ma può rivelarsi anche un'arma a doppio taglio se non si prendono adeguatamente le misure. Renato Bruson è stato un grandissimo interprete, un signore del canto e del palcoscenico e certamente averlo come guida in una produzione di Falstaff può avere per una compagnia di giovani un altissimo valore formativo. Ma oggi sul palcoscenico il settantasettenne Bruson non è più, purtroppo, un punto di riferimento altrettanto valido.
Non trovo rispettoso dell'artista applaudire compassionevoli in memoria di ciò che è stato. Proprio in memoria di ciò che è stato intristisce profondamente vederlo arrancare in scena, faticare oltremisura per entrare nella cesta o stendersi con Alice ai piedi della Quercia di Herne, sentire la voce spezzarsi di continuo in un parlato vagamente (e spesso approssimativamente) intonato. Bruson è lì negli sguardi che ancora scintillano e nell'intenzione che talora riesce a farsi intendere, ma non più, ahimé, a realizzarsi e svilupparsi. Preferiamo stendere un pietoso velo e non unirci né a una spietata disanima del declino avanzato, né a un'acritica e perfino morbosa idolatria nel nome del passato. Nel nome del passato preferiamo allora riascoltare il Falstaff inciso con Giulini di trent'anni fa.
Oggi purtroppo troviamo il talentuoso e preparatissimo Sebastiano Rolli costretto a modellare – con sensibilità da vero direttore d'opera – tempi e dinamiche sulle esigenze del protagonista, non solo in termini di fiato, ma anche di puri movimenti scenici. Sicuramente il maestro ha dimostrato, oltre a una sicura tenuta musicale e a un buon rapporto con l'orchestra (la Filarmonica del Regio), un senso raro del palcoscenico e la capacità di far quadrare ogni cosa reagendo con prontezza a necessità contingenti e imprevisti. Un'altra scelta felice in un Festival che quest'anno sembra segnalarsi per una politica giustamente attenta al coinvolgimento di nuove bacchette di valore, il modo migliore di garantire il buon esito di una produzione. Se, infatti, Rolli, sa venire incontro alle difficoltà di Bruson senza snaturare gli equilibri della partitura, così offre perfetto sostegno ai giovani che lo accompagnano sulla scena. Nessuno ci fa gridare al miracolo, ma tutti si dimostrano sostanzialmente adeguati e ben inseriti nella commedia concertata dal podio. Si segnala Alice (nomen omen) Quintavalla, soprano lirico di bel colore, emissione morbida e buona impostazione tecnica, che certo potrà rifinirsi e svilupparsi ancora con il tempo. Completavano il quartetto delle comari, equilibrato e ben calibrato negli spazi del Teatro Verdi, Valeria Tornatore (Meg), Francesca Ascioti (Quickly), entrambe da riascoltare in altri cimenti e altri spazi, e, un gradino sotto, la Nannetta appena garbata, ma di voce esile, priva di personalità e scenicamente impacciata di Linda Jung. Sul versante maschile, invece, si impone, anche fisicamente, il Ford di Vincenzo Taormina, per quanto non faccia certo eccezione al consiglio di un ulteriore raffinamento tecnico, lo stesso che ci aspettiamo da Leonardo Cortellazzi, tenore pure già noto per le ottime potenzialità e qui alle prese con un ruolo, quello di Fenton, a lui particolarmente congeniale. Marco Voleri è Bardolfo, Eugeniy Stanimirov Pistola, Jihan Shin Cajus.
L'allestimento celebra quest'anno un secolo di vita e li dimostrerebbe tutti, se non fosse che la parte autenticamente d'epoca (i bozzetti per i fondali che furono utilizzati nel centenario della nascita di Verdi, in questo stesso teatro, con Toscanini sul podio) è quella ancora più fresca e affascinante. Le scene dipinte, quando sono ben fatte, quando sanno giocare con prospettive, luci e colori, mantengono infatti una loro intramontabile suggestione, che però dovrebbe accompagnarsi a un gioco scenico che approfondisca la psicologia e i rapporti fra i personaggi, mentre in questo caso abbiamo più che altro un'ordinata gestione dell'azione all'insegna del déjà vu. Nulla di male, è un allestimento volutamente archeologico, ma, certo, una ripresa un po' più fresca non avrebbe sfigurato, anche per meglio valorizzare una compagnia tutta selezionata da accademie (massime quella della Scala) e concorsi.
Il pubblico, fra cui molti giapponesi, festeggia entusiasta. A noi resta, oltre all'ottima impressione destata da Rolli, soprattutto l'atmosfera impagabile di queste serate d'autunno nelle terre verdiani, con l'incipiente nebbiolina padana che si mescola agli effluvi di Gotturnio e salumi, nei decori deliziosamente pretenziosi, d'alta borghesia campagnola, di questo teatrino in miniatura, che forse amiamo anche per il suo essere un omaggio sgradito al genio di Verdi, che vi entra sempre a fatica, si direbbe malvolentieri, costretto negli spazi e nell'acustica, eppure così amato e sentito, profumato come forse in nessun altro luogo al mondo.