di Roberta Pedrotti
Il Comunale di Bologna celebra Britten con The turn of the screw, sottilissima e inquietante ghost tale psicologica. Splendide la direzione di Jonathan Webb e la prova dell'orchestra; intelligente e sempre moderno, a sedici anni dalla prima, l'allestimento di Giorgio Marini. Non convince appieno, invece, il cast, con alti e bassi fra le due compagnie.
BOLOGNA, 19 e 23 novembre 2013 - Alla prima di martedì e alla replica di sabato il teatro non è pieno, il loggione non è aperto e fa un po' male pensare che uno dei più grandi musicisti teatrali della storia, proprio a cavallo del centenario della nascita, possa essere ancora percepito sulla carta come alieno a un repertorio più immediatamente fruibile. Il teatro non sarà pieno ma già alla prima la percentuale di giovani è considerevole, e questo, almeno, ci conforta non poco oltre a confermare il magnetismo di un'opera dal fascino straordinario come The turn of the screw. A monte c'è la novella di Henry James del 1898, resa ancor più perturbante nel libretto di Myfanwy Piper. Contrariamente a quanto rilevò a suo tempo (la prima fu a Venezia nel 1954) parte della critica, infatti, la scelta di dare corpo e voce ai due spettri, di affidar loro versi enigmatici ma compiuti e canto non va a detrimento dell'ambiguità, non disperde l'atmosfera né banalizza la psicologia dei personaggi. Anzi, instaura un rapporto ancor più stretto e inestricabile fra il mondo dei vivi e quello dei morti, fra reale e irreale, razionalità e visionarietà. Dove si annidino il male e la follia, se sia realmente la nefanda influenza di Peter Quint o piuttosto un frutto della mente dell'Istitutrice resta un mistero.
L'arcano di un labirinto di specchi nel quale è difficile credere perfino ai nostri occhi e alle nostre orecchie; così ce lo restituisce il bell'allestimento di Giorgio Marini, che rievoca la tenuta di Bly come una dimora spettrale, sproporzionata ai suoi abitanti, vuota, già morta; vivi e defunti si incrociano e si spiano attraverso specchi e vetrate, si somigliano, si riflettono, si scambiano, come un unico raggio di luce che si rifrange attraverso un prisma. Dal parco incombono delle lapidi, i bambini giocano con un modellino della carrozza che aveva portato un tempo Miss Jessel, oggi la nuova Istitutrice. Una visione teatrale estremamente intelligente, che però patisce in questa ripresa l'assenza di grandi personalità sul palcoscenico, dove l'azione e la recitazione non sono sempre magnetiche e taglienti come si vorrebbe e come invece risulta la concertazione di Jonathan Webb. Fine e profondo conoscitore dell'opera di Britten il maestro inglese esalta il protagonismo degli strumenti solisti – l'orchestra è in formazione cameristica, a parti reali, e ogni voce ha un ruolo drammatico e un virtuosismo di scrittura che ne fa un vero personaggio – senza perdere lo sguardo d'insieme; mantiene l'atmosfera sul filo del rasoio, dosa la suspense fra sonorità spettrali, rarefatte, delicate inquietudini, perversi turgori. È l'orchestra, con il suo direttore, la protagonista indiscussa di uno spettacolo in cui, con alterne vicende, il cast non brilla, a partire dall'Istitutrice. Ad Anne Williams-King, interprete alla prima, manca la definizione del personaggio nei suoi tratti fondamentali di nevrosi, di gioventù irruente, idealista, magmatica e repressa. Manca di ambiguità, quell'ambiguità patente già nel primo monologo, quando i piccoli melismi sulla parola Why sembrano anticipare il richiamo di Peter Quint, e anche il canto non è fluido, lucente e variegato come si converrebbe, spesso opaco e fioco. Il suo momento di maggior incisività è il finale, nel quale invece mostra qualche segno di stanchezza Sara Hershkowitz, responsabile però di una prova decisamente più convincente per adesione al personaggio di questa Jane Eyre fin de siècle (l'allusione al romanzo gotico e romantico di cui le sue fantasie sono imbevute è evidente quando si chiede de quello che ha visto sia un pazzo rinchiuso nella torre). La figura giovane e sottile, la bella silouette chiusa nella divisa severa, la delicatezza nervosa, il colore più fresco rendono con una maggiore efficacia l'anima magmatica, severamente repressa nei suoi istinti e sublimata in un idealismo impulsivo e ansioso, in una smania eroica che dissimula quella erotica e si rivela infine distruttiva. Il suo opposto e – forse – il suo alter ego è costituito dalla coppia di fantasmi, il suo principale antagonista è Peter Quint. Nei suoi inquietanti panni (e in quelli del Prologo) si sono alternati due tenori sostanzialmente equivalenti: forse Randal Bills è un po' più preciso musicalmente di Boyd Owen, che appare interprete migliore nel declamato, ma entrambi falliscono nel connotare il peculiare canto melismatico del richiamo di Peter Quint. Qui arabeschi seducenti di perversità devono risplendere di sinistre fosforescenze, perfettamente fluidi e legati, senza quelle terzine nervose e affrettate, tratte da certa, non inappuntabile, maniera barocchista. Come Miss Jessel né Cristina Zavalloni né Patrizia Orciani si impongono per ortodossia vocale, ma se la seconda è forte di una certa esperienza nel ruolo, la prima vince per presenza scenica, intelligenza d'articolazione e musicalità.
Rispetto alla voce sopranile ormai prosciugata, aguzza e tagliente, di Laura Cherici, si fanno preferire i toni più caldi del mezzosoprano Gabriella Sborgi, che se pure non avrà una freschezza non richiesta per la matura e semplice Mrs Grose, le conferisce un tratto più intrigante e complesso rispetto alla consueta materna alternanza fra bonomia e apprensione: lei che tutto aveva visto delle “libertà” di Peter Quint e non aveva reagito perché non era compito suo, dopo aver approvato la decisione dell'Istitutrice di scrivere al tutore dei ragazzi concentra il viso in un'espressione enigmatica e solo alla fine, rivelando che la missiva in realtà non è mai partita, ammanta il suo “Miles must have taken it” di una sorta di allusiva complicità. La governante da che parte sta, se mai si possono distinguere, nel gioco di specchi fra bene e male, fra realtà e delirio? Ha assecondato consapevolmente gli spettri o, se questi non esistono, è stata lei stessa a intercettare (o far intercettare) la lettera? Al centro di questo inestricabile labirinto ci sono, ovviamente, i due bambini, c'è Miles, forse la più grande parte, sia musicale sia teatrale, mai concepita per un fanciullo. Il confronto fra i due interpreti ascoltati è potenzialmente assai interessante: alla prima c'è Sebastian Davies, tredicenne biondo e angelico, voce chiara e sottile, e in alternanza Dominic Williams, coetaneo ma all'apparenza più grandicello, moro e inquieto, il cui fraseggio e la cui recitazione suggeriscono più d'uno spunto originale. La voce mostra però un certo sforzo e lascia immaginare una qualche forma di laringite dovuta all'umidità di queste giornate ormai invernali, offuscando la resa delle pur buone intenzioni. Meglio, allora, nel complesso, l'inquietante imperturbabilità, ancor più tagliente se abbinata alla dolcezza dei lineamenti, di Davies. Nelle recite di martedì e sabato ricorreva un'unica Flora, Erin Hughes, ma val la pena citare la coppia di giovanissime italiane, Benedetta Fanciulli e Valentina Pucci, in locandina per il 27 novembre nei panni dei due fratelli. La diciannovenne britannica conosce bene il ruolo e, osservandola in due recite, si possono meglio apprezzare le espressioni e gli sguardi, la consapevolezza dell'interprete.
L'inquietudine, il terrore sottile e ambiguo non sviluppano mai, in queste serate, il potenziale agghiacciante e soggiogante di The turn of the screw, ma è anche questo il destino di un'opera fatta di allusione, elisione, di equilibri delicatissimi. Il destino di un capolavoro che ad ogni ascolto lascia ammirati e svela nuove sfumature, nuove pieghe, nuove chiavi di lettura. Se il teatro non è esaurito, è però pieno di passione per Britten e questo suo lavoro, sia che si tratti di un amore di vecchia data o di una fiamma appena accesa.