di Roberta Pedrotti
In occasione delle feste di Natale il Carlo Felice dimentica le ombre della crisi e regala una produzione memorabile dell'Otello verdiano. Non poteva darsi conclusione migliore per le celebrazioni del bicentenario, coronato dalla prova superlativa dei tre protagonisti. Interpreti e musicisti consapevolmente moderni, Gregory Kunde, Maria Agresta e Carlos Alvarez hanno travolto tutto e tutti danno vita a una recita d'altri tempi.
Guarda le interviste a Maria Agresta e Carlos AlvarezGENOVA, 29 dicembre 2013 - L'Otello di oggi è un Otello d'altri tempi e modernissimo, fatto da grandissime voci, tutto concentrato sui tre protagonisti, che sono però anche artisti completi, musicisti e interpreti, tali da imporre con tutta la loro forza non solo una delle esecuzioni meglio cantate di quest'opera e la migliore pensabile oggi, ma anche una recita magica e indimenticabile. Una recita che lascia rapiti a bocca aperta, ci si commuove per la bellezza di quel che si sta ascoltando e regala la consapevolezza di poter dire un giorno “Io c'ero, io ho visto Otello con Kunde, Agresta e Alvarez”. Una recita storica e attuale, immersa in un'atmosfera elettrica, fra applausi a scena aperta, sfogo quasi indispensabile di un incontenibile entusiasmo, e ovazioni esplosive a ogni finale d'atto, rasentando il delirio per un'esecuzione memorabile di “Sì, pel ciel”.
Il Moro di Gregory Kunde è un sogno che si avvera; se da un lato l'avvicinarsi del sessantesimo compleanno – il prossimo 24 febbraio – rende l'impresa quasi miracolosa, dobbiamo riconoscere che proprio l'esperienza e la coscienza musicale maturate nel belcanto costituiscono l'ingrediente fondamentale, insieme con la tecnica e una forma fisica invidiabile, del prodigioso elisir che permette di concretizzare la chimera di un Otello filologico, vero epigono di Francesco Tamagno, esempio di un canto nobile e argenteo ben radicato nella tradizione belcantista italiana e grandoperista francese, avvezzo ad Arnold, Raoul, Vasco da Gama e Riccardo (Un ballo in maschera) più che a compare Turiddu. Kunde, sfruttando lo squillo spavaldo e realmente argenteo dell'ex tenore contraltino, non ignora la drammaticità di Otello, né si pone in netto contrasto con la tradizione novecentesca, rivisitandola con intelligentissima cura musicale, senza sprecare un solo colore, un solo accento, e sapendo conferire al suo canto un'ampiezza, un'imperiosità, una virilità che assai raramente troviamo in voci più autenticamente drammatiche, sovente più goffe e sbrigative nell'espressione e nella realizzazione del dettato verdiano, meno pronte nelle ascese all'acuto che Verdi esige più che per Manrico. Non abbiamo tema d'affermare che nella storia l'Otello di Kunde non sia secondo a nessuno, e che oggi non tema nessun rivale anche lontanamente paragonabile a quel che abbiamo udito a Genova. Un Otello musicista, uomo ed eroe, un Otello dalle intenzioni realmente belcantiste, ma perché finalmente ben cantato, non perché alleggerito o liricizzato. La grandezza vocale di questa prova si misura, d'altra parte, proprio nella sua forza teatrale: la mezzavoce è suadente e voluttuosa, morbidissima nel duetto del primo atto, sofferta, disperata nei dolorosi monologhi, l'impeto è trionfante, furioso o lancinante, la parola sempre in primo piano e sempre esaltata nell'introspezione e nel confronto fondamentale con Desdemona e Jago. Questo è il dramma di tre individui, di tre psicologie, di tre personaggi complessi e palpitanti, ma anche di tre simboli, quasi due letture si sovrapponessero in un gioco di specchi che ha il suo cardine in “Dio, mi potevi scagliar”, quando Jago, sul fondo, mima esattamente i movimenti del Moro: è dunque lui il burattinaio estremo della disfatta di Otello, l'uomo roso dall'invidia che gode della realizzazione del suo piano perverso e della rovina altrui, o l'anima nera dello stesso protagonista, un mostro che covava nel suo spirito e che lo porta alla distruzione? L'Alfiere e Desdemona non rappresentano, d'altra parte, anche i due principi contrapposti del dualismo tanto caro a Boito? E se Otello maledicendo Desdemona la chiama “Anima mia”, in quello stesso istante sta anche dannando se stesso, la propria anima. Il veleno di Jago lavora e si annida nel cuore di Otello, tanto che nel finale, l'uno trionfante e l'altro esanime, entrambi ascendono allontanandosi dai superstiti, e, fatalmente, dalle spoglie di Desdemona.
L'interazione di Kunde con lo Jago di Carlos Alvarez (per di più reduce da un'indisposizione) è in questo senso impressionante, soprattutto nel secondo atto, che li vede protagonisti assoluti in un crescendo drammatico che toglie il fiato e avvince totalmente proprio in virtù della calibratissima misura con cui è sviluppato l'ambiguo rapporto fra vittima e carnefice. Il baritono andaluso non spreca una parola, una nota, un'inflessione, ma lo fa senz'ombra di leziosaggini, senza mai compiacersi d'un uso eccessivo dei colori, che invece sono giostrati per esibire la perturbante quotidianità del male. Jago non è un subdolo camaleonte, non un istrione, ma un uomo. Un uomo che dietro alla maschera di una normalità quasi anonima cela un animo prosciugato dall'invidia, dal rancore, un metodico procedere alla distruzione di tutto ciò che lo circonda. Alvarez, intenso e carismatico, soppesa ogni sfumatura e ogni accento con gusto sopraffino, simulando quotidiana noncuranza, ma è tagliente come una lama, implacabile e inquietante, come la rivelazione di un titanico principio distruttivo latente e inaspettato intorno a noi e dentro di noi. Il canto virile e controllatissimo, lo splendido colore baritonale, declinato in una musicalità raffinata quanto netta, raggelante, tessitrice d'insidie, paiono risvegliare le ombre dell'animo di Otello, i suoi dubbi, le sue insicurezze, un suo attualissimo senso d'inadeguatezza nel momento dell'amore e del trionfo. Jago si alimenta del veleno che è già nel seno del Moro e, a sua volta, lo mette in circolo con crescente tossicità. Entrambi sono volti l'Idra fosca e prendono corpo nel canto e nella parola di due artisti eccellenti.
La tenebra, per esistere, necessita della luce, anche se finisce per inghiottirla. La luce è Desdemona, polo positivo del dualismo boitiano, ma anche una giovane decisa e innamorata che si trova vittima di un meccanismo incomprensibile, sola, rinnegata dall'uomo per il quale aveva lasciato ogni cosa e che per lei ormai rappresenta tutto. È una donna forte, fors'anche avventata che improvvisamente si vede crollare il mondo addosso: così ce la restituisce Maria Agresta, con un canto fresco e sicurissimo, dolce, solido, vibrante d'espressione, capace di avvincere l'attenzione in un'apertura del quarto atto toccante come è raro sentire. Non teme le mezzevoci o gli acuti filati, sempre ben sostenuti anche cantando supina, prona, accucciata in posizione fetale: donna di teatro a tutto tondo come i suoi colleghi, musicista e artista capace di sbalzare un personaggio di autentica umanità, ma anche di rappresentarne il valore simbolico. Quando sono in scena i tre cardini dell'opera, quando si rappresentano il loro rapporto e la loro interiorità, anche la regia di Davide Livermore (responsabile anche del light design e, con Giò Forma, delle scene) convince e propone le soluzioni migliori, sfruttando con ottime luci e proiezioni una struttura circolare che ricorda la cavea stilizzata d'un teatro antico o un gorgo marino, la spirale inesorabile della tragedia. Molto interessante, a corollario del rapporto simbolico-psicologico fra Otello, Jago e Desdemona, anche la valorizzazione di Emilia, vera “schiava impura” del marito, da questi guidata a rubare il fazzoletto con potere quasi magnetico, ma consapevole di esserlo e del male che si dipana sotto i suoi occhi, dolorosamente partecipe della Canzone del salice, cui si associa con un canto muto come quello di Jago in “Dio, mi potevi scagliar”, ma anche, suo malgrado, proiezione essa stessa nell'ombra nera dell'Alfiere. Quando invece è in scena il coro si avverte la difficoltà nel gestire le masse e la messa in scena perde d'interesse, penalizzata anche dai costumi davvero brutti creati da Livermore insieme con Marina Fracasso. Il resto del cast fa, ovviamente e onorevolmente, da cornice, e si apprezzano soprattutto il bel colore e lo smalto penetrante dell'Emilia di Valeria Sepe, anche se l'impressione è nettamente sopranile: come già per la Agresta, che intraprese gli studi come mezzosoprano, un passaggio al registro superiore potrebbe forse portar fortuna a questa giovane artista. Manuel Pierattelli è Cassio, Naoyuki Okada Roderigo, Seung Pil Choi Lodovico, Claudio Ottino Montano, Gian Piero Barattero un araldo. La concertazione di Andrea Battistoni ci rimanda anch'essa a tempi passati, quando voci formidabili davano vita a recite incandescenti anche in presenza di bacchette poco brillanti, con complessi non sempre irreprensibili. Il giovane veronese manca ancora dell'incisività, del mordente, della capacità di tenere tutto sotto controllo innervando di tensione ogni colore, ogni sfumatura, come se l'impeto giovanile si fosse smorzato senza trovare ancora la giusta sintesi, senza raffinarsi a dovere. Piuttosto fiacco e pesante non sviluppa a dovere eventuali intuizioni e non calibra sempre le sonorità in rapporto al palcoscenico. Il canto però rapisce ugualmente; l'arte, il carisma, la moderna consapevolezza stilistica unita a personalità, intelligenza, gusto e perizia tecnica fanno di Kunde, Agresta e Alvarez gli artefici di una recita incandescente che resterà, per chi vi ha assistito,un ricordo indelebile e una pietra miliare nell'interpretazione di quest'opera.