di Roberta Pedrotti
Die Zauberflöte apre nel segno di Mozart il 2014 al teatro Regio di Torino e dà voce al riscatto dei più umili ed emarginati incarnati dalla Pamina di Maria Grazia Schiavo e dal Papageno di Markus Werba. La prima con la sua personalità e la sua decisa e variegata definizione psicologica spazza via ogni sospetto di misoginia e passività nella caratterizzazione della principessa; il baritono incarna la più autentica umanità in perfetto equilibrio fra introspezione e istrionica comunicativa. Musicisti e artisti eccellenti accendono una produzione nel complesso decisamente riuscita.
TORINO, 19 gennaio 2014 - Il principe conquista la sua bella, premio al suo valore, ed entra nel cerchio degli eletti, il suo umile aiutante trova pure una fidanzata ma si accontenta più modestamente di avere di buon cibo e buon vino, la regina è sconfitta. Messa in questi termini e considerando alcuni versi decisamente misogini, la fiaba illuminista di Schikaneder non si può dire né rivoluzionaria né progressista. È vero che la virtù principale di Tamino non è quella d'esser Principe, quale lui si vanta nell'immaturità iniziale, ma di essere Uomo, tuttavia se non fosse di sangue reale ben difficilmente sarebbe predestinato al glorioso percorso sapienziale che gli si profila innanzi e che affronta passando quasi inconsapevolmente dalla fedeltà alla Regina a quella a Sarastro. E vero è che alla fine Pamina conquista il grado d'iniziata normalmente precluso alle donne, ma pure le parole dei saggi sono costellate di sentenze e luoghi comuni maschilisti. D'altro canto, è pure chiaro che il buon Papageno vivrà assai meglio nel regno eletto della luce, ma che alla sua semplicità non è concessa alcuna ascesa sociale e intellettuale.
Siamo, però, nel terreno della fiaba popolare e dell'apologo ideologico: ogni elemento è ricondotto all'essenzialità di un simbolo che racchiude infinite possibili chiavi di lettura, che le vede animarsi e prender consistenza nel momento in cui dalla lettera di Schikaneder s'incarnano nella musica di Mozart. L'interprete che sappia farsene tramite consapevole e attivo svela le sfaccettature di questi simboli ed eleva la fiaba ai più alti sensi universali senza tradirla.
Artisti come Maria Grazia Schiavo e Markus Werba sanno dare all'elemento femminile e a quello popolare un rilievo che finalmente rivendica i diritti e i valori degli emarginati nello scontro polare fra tenebre e luce, non solo, d'altra parte, banale e manichea contrapposizione fra bene e male, fra illuminismo e superstizione, ma anche rappresentazione universale e dialettica di principi complementari, opposti e inseparabili.
La Schiavo [guarda l'intervista] canta magnificamente, con morbidezza squisita, grazia e sicurezza anche nei passaggi al registro grave, musicalità intelligente e consapevole gestione tecnica di ogni dettaglio. Sempre nell'arco d'una sovrana eleganza, conferisce al fraseggio un pathos fragrante, fresco e carnoso, capace di trasecolorare in tutta naturalezza dalla fragilità adolescenziale, allo stupore, alla dolcezza, alla melanconia e alla risolutezza di una maturità conquistata autonomamente attraverso l'esperienza cosciente del mondo e del dolore. Pamina non è condotta, inconsapevole, attraverso le prove, ma, destinata a essere il premio per l'uomo che saprà guidarla, osserva e decide, infine, autonomamente di affiancarlo per attraversare acqua e fuoco. È significativo che in questo spettacolo sia lei a suonare il flauto magico fra i flutti e tutto, nel canto e nella recitazione della Schiavo, concorre a fare della principessa prigioniera il personaggio chiave, il più interessante dal punto di vista psicologico, di questa produzione. Non è da meno Werba, il Papageno per eccellenza dei nostri giorni, capace di una totale identificazione con il personaggio, estroverso, empatico, istrionico, eppure mai esagerato, nemmeno quando – in questo allestimento – è portato a interagire sovente con il pubblico e interpolare battute in italiano. Il gusto e la classe dell'artista non hanno mai il minimo cedimento e i tratti buffoneschi, propri del teatro più popolare, sottintendono sempre un'umanità che sorge ancor più toccante nelle frasi liriche e dolorose, per esempio, dell'addio al mondo. Un Papageno perfetto e completo, fra i migliori di sempre anche per la felice unione fra istinto e intelligenza, fra senso della parola parlate e cantata, della frase musicale e del gesto scenico.
Brava anche la Regina della notte di Olga Pudova, non altrettanto eclatante sotto il profilo strettamente vocale (i passaggi d'agilità, specie nella prima aria, denotano un controllo imperfetto del fiato), ma assai incisiva come interprete, autorevole ed energica; parimenti Aleksandr Vinogradov pare ben maturato rispetto a qualche anno fa e, nonostante qualche occasionale suono leggermente artificioso, interpreta con giusta concentrazione e autorità un Sarastro sempre a fuoco ed elegante. Qualche dubbio in più desta il Tamino di Giorgio Berrugi, splendido per dote vocale, luminosa e incisiva, potenzialmente perfetta per il ruolo, ma assai deludente come musicista, perfino con qualche brutto cedimento d'intonazione nei cantabili che sciupa il bell'effetto di alcune frasi declamate o di alcuni suoni preziosi. Monostatos era Alexander Kaimbacher, Papagena una scatenata Laura Catrani, le tre dame Talia Or, Alessia Nadin ed Eva Vogel, l'Oratore Ryan Milstead, i sacerdoti e gli armigeri Klaus Kuttler (basso) e Dario Prola (tenore dallo squillo interessante). Debolucci assai come intonazione i tre geni: Esther Zaglia, Elena Scamuzzi e Giulia Moretto. Bene, nei suoi brevi interventi, il coro.
La sala del Teatro Regio non è, per spazi e acustica, la più adatta al repertorio settecentesco, lo sappiamo bene, e la nostra posizione in palco non migliorava certo la situazione, sfumando l'effetto della concertazione, certo molto elegante e attenta, di Christian Arming in una povertà di mordente e tensione che non ci sentiamo d'imputare in toto al podio.
L'allestimento che il Regio ha acquistato dal Massimo di Palermo e firmato da Roberto Andò per la regia, da Giovanni Carluccio per scene e luci e da Nanà Cecchi per i costumi, è assolutamente tradizionale, senza eccessi oleografici in un impianto comunque assai sobrio, semplice e senza sorprese ma con una prima apparizione della Regina della notte ben realizzata. Generalmente elegante e garbata, la regia calca forse un po' la mano nelle battute di Papageno, ma come si è detto l'arte di Werba salva il gusto e, viceversa, alcune soluzioni, come quella citata di far suonare il flauto a Pamina durante la prova dell'acqua (elemento femminile per eccellenza), sono decisamente convincenti. Tuttavia Andò non sembra spingersi al di là dell'illustrazione e quando alla fine anche la Regina, Monostatos e le dame si uniscono al trionfo della luce non è ben chiaro se si tratti di una conversione, di un'affermazione dell'universalità comprendente diversi principi, dello svelarsi di un antico accordo che permettesse la maturazione dei due giovani, di un ammiccamento metateatrale o altro. Quel che è apparso subito ben chiaro è stato l'entusiastico gradimento da parte di un pubblico divertito quanto numeroso. E l'eccellenza di due letture di riferimento per resa e profondità come quelle della Schiavo e di Werba.