di Roberta Pedrotti
Brillano l'arte in continua crescita di Anna Pirozzi e la personalità intramontabile di Leo Nucci nel Nabucco concertato con viva teatralità da Renato Palumbo al Teatro Comunale di Firenze. Accolto da una viva ed entusiasta partecipazione di pubblico, proprio il titolo che inaugurò la prima edizione del Maggio nel 1933 potrebbe segnare la svolta definitiva verso il superamento delle difficoltà che hanno gravato sull'istitizione fiorentina negli ultimi tempi. Il cammino è ancora lungo, ma non mancano ragioni di speranza.
FIRENZE, 26 gennaio 2014 - Minacce di liquidazione, fieri accenti di protesta, calo d'attenzione in un pubblico sempre meno fidelizzato. Così, nelle tempeste degli ultimi mesi ci appariva il Maggio Fiorentino, che pure aveva messo a segno alcuni colpi notevoli, come il Macbeth alla Pergola, uno degli allestimenti più significativi delle celebrazioni verdiane del 2013.
Oggi per fortuna il Nabucco che ha aperto la programmazione 2014 sembra dare una boccata d'ossigeno e proprio lo stesso titolo che, nel 1933, aveva inaugurato la prima edizione del Maggio nel 1933, ci auguriamo possa simbolicamente dare il via a una progressiva rinascita dell'istituzione fiorentina, sia nel Festival sia nella programmazione ordinaria. Intanto la prima notizia positiva sta nella grande affluenza di pubblico, che nella recita di domenica pomeriggio ha affollato il teatro oltre ogni aspettativa e che sembra, oltre che un segno di apprezzamento per questa produzione, un indizio incoraggiante per un rinnovato rapporto fra il Maggio e la cittadinanza.
Affidato alle cure esperte di Renato Palumbo questo Nabucco si avvia senza problemi al successo, contando sul palcoscenico soprattutto sulle ben note qualità di Anna Pirozzi e Leo Nucci. La prima si conferma, oltre che una notevolissima cantante, un'artista in continua crescita, capace di offrire una prova musicalmente superiore anche a quella bolognese di pochi mesi fa. Se appare meno prodiga e spericolata di allora nei sovracuti non è per prudenza, la tessitura è onorata con smagliante sicurezza, ma la generosità si esprime anche e soprattutto nelle variazioni e nella raffinatezza di una lettura che si rinnova senza limitarsi a riproporre un modello collaudato. È davvero un piacere assistere all'affinamento belcantistico di una voce di tale importanza che si piega a impreziosire secondo lo stile la ripresa della cabaletta di Abigaille e cesellarne con sensibilità e intelligenza declamati e cantabili. Nucci si presenta in gran forma e fa valere il suo carisma, la sua generosità espressiva, un'energia in grado di vincere anche lo scorrere il tempo o, quando questo si fa sentire, di piegarlo a fini espressivi, rimanendo sempre padrone del palcoscenico. Non altrettanto felice la prova di Riccardo Zanellato, che, confrontandosi anche con un'acustica difficile per tutti e in particolare per una vocalità non proprio doviziosa in termini di armonici come la sua, rimane un po' in ombra nei panni di Zaccaria. Efficaci l'Ismaele di Luciano Ganci e la Fenena di Annalisa Stroppa, che, senza mettere in luce mezzi verdiani rigogliosi, canta con sensibile e ispirato lirismo. La locandina era completata da Dario Russo, Gran Sacerdote di Belo, Enrico Cossutta, Abdallo, e Valeria Sepe, Anna. Il coro preparato da Lorenzo Fratini, da pochi mesi a Firenze, canta benissimo e sembra pronto a ritornare agli antichi splendori. Lo confermano nell'ampia e controllatissima gamma dinamica richiesta da Palumbo nel “Va' pensiero”, regolarmente bissato. Il coro di schiavi sembra pulsare, come l'estasi e il dolore della memoria, in una sorta di sospensione scandita dall'identità fra la voce, il suono, la parola e il gesto del concertatore. Il Verdi di Palumbo è come sempre vivido, impetuoso, teatrale, ampio e solenne ove occorra, mobilissimo nelle dinamiche e nell'agogica, sempre attento alla scena e alle esigenze del canto (anche sollecitando variazioni nelle ripresa delle cabalette di Abigaille e Zaccaria), soprattutto in una sala acusticamente particolare come questa.
Orgogliosamente presentato come vincitore del Premio Abbiati 2012, l'allestimento di Leo Muscato ci riconferma che ormai il riconoscimento un tempo prestigioso si è ridotto a una stelletta di latta di poco o nessun valore, ma che artisti e teatri possono appuntarsi al petto e far luccicare un po'. A volte a ragione, a volte no. Davvero non si comprende perché questa produzione nata in coproduzione con i maggiori teatri sardi debba distinguersi fra mille altre normalmente proposte anche in teatri assai meno prestigiosi di quello fiorentino. È semplicemente una buona illustrazione, assai ben illuminata da Alessandro Verazzi (luci riprese da Gianni Paolo Mirenda e davvero molto belle), con scene (Tizian Santi) e costumi (Silvia Aymonino in origine e ripresi da Virginia Gentili) eleganti ed efficaci. Lo spettro cromatico fra i toni della sabbia, della pietra, del grigio, del rosso e dell'oro è di pregevole realizzazione, l'essenzialità lodevole ma la recitazione alquanto statica, senza stimoli o spunti di riflessione particolari (ma una lode va alla piccola comparsa così sinceramente infervorata, nel finale primo, contro il traditore Ismaele), gli effetti spettacolari piuttosto goffi: la saetta del finale secondo, salutata da un plateale levar di braccia, è deboluccia, così come l'infrangersi dell'idolo al termine dell'opera, che fa gridare al prodigio per qualche brandello d'intonaco che pare staccarsi dal soffitto e planare lieve sul palco. Non un cattivo spettacolo, nel complesso, con momenti più o meno riusciti, ma, certo, di gran lunga inferiore alle aspettative; da Muscato abbiamo visto di meglio, per esempio I masnadieri.
Sicuramente c'è ancora del lavoro da fare perché il Maggio, sotto il profilo artistico e organizzativo, torni ai fasti del passato, ma aver aperto felicemente il 2014 con un bel successo verdiano, una produzione musicalmente ben riuscita e accolta con calore ed entusiasmo dal pubblico è senza dubbio il migliore degli auspici per il futuro.