di Roberta Pedrotti
E se Mariella Devia smettesse di cantare ora? Parrebbe una provocazione, ma il soprano ligure è già nella storia e ha già dimostrato di essere una delle più grandi artiste del suo e di ogni tempo. Lo conferma il personaggio controverso di Maria Stuarda, fra i più congeniali al suo temperamento.
FIRENZE, 23 giugno 2013 _ E se Mariella Devia smettesse di cantare ora? Sembrerà provocatoria, ma la domanda oggi è lecita e la risposta è una sola: avrebbe dimostrato di essere una delle più grandi cantanti del suo e di ogni tempo. Una cantante che ha saputo rimanere nel suo ambito stilistico e in esso conquistare ruoli che sarebbero sembrati, due o tre lustri fa, proibitivi per la sua voce e il suo temperamento. Invece non solo è stata, dopo Gilda, Lucia, Elvira, Fiorilla o Lakmé, anche una credibile Lucrezia Borgia, Anna Bolena, Imogene, Elisabetta (Roberto Devereux), Norma: è stata una grande Borgia, Bolena, Imogene, Elisabetta, Norma. Non ha forzato i propri mezzi, non ha travisato caratteri e scritture, ma ha assecondato l’evoluzione della sua voce (che non s’è fatta più pesante, ma un poco più densa e scura di colore) e ha saputo far propri tutti i nuovi personaggi nel segno di una tradizione belcantista nella quale il grande artista sa modellarsi e modellare il ruolo, lavorare sull’interpretazione, sul fraseggio, sulla più minuta musicalità in modo da trovare una propria strada senza tradimenti, camuffamenti, falsificazioni. Studiare sempre, ricercare sempre; non considerare nulla scontato, nessun risultato la meta definitiva.
Se Mariella Devia si ritirasse ora sarebbe già nella storia. Per il suo metodo e la sua disciplina; per la sua tecnica e per come ha saputo fare di quella tecnica il fulcro di una grande, raffinata personalità d’interprete che ormai non ha più bisogno di conferme e verifiche. Tantomeno in Maria Stuarda, figura che si adatta come un guanto alle sue caratteristiche per quel canto elegiaco atto a metterne in risalto il legato, le messe di voce, la gestione del fiato, per quelle cabalette dolenti e patetiche ma sempre regali che le permettono di sfoggiare la sua bella coloratura espressiva di maniera, secondo la classificazione ottocentesca. Soprattutto le si confà il personaggio, altero, dal passato burrascoso, eppure capace di affascinare chiunque, di convertire i più orrendi peccati in un’aura di santità che la eleva al di sopra di tutti. La Devia canta come un angelo, eccelle là dove può conferire al suo canto una sorta di arcana mestizia, ma non è mai una vittima, anzi: nel suo controllo, nel suo rigore esprime proprio una fierezza altera che talora sa perfino sfociare in una tagliente perfidia. Ci ricorda che Stuarda non è la povera regina devota imprigionata e condannata dalla cugina cattiva, le cui lamentazioni non interesserebbero nessuno, ma la degna e pericolosa rivale di Elisabetta. Perfino l’amore del pallido Leicester non è che pretesto e strumento di uno scontro politico ed etico fra la protestante, nubile figlia di Bolena, e la cattolica Maria, già regina consorte di Francia, tre volte sposa, nipote della sorella di Enrico VIII.
Purtroppo in queste recite fiorentine in forma oratoriale non trova una degna controparte nell’Elisabetta di Laura Polverelli, pallida e priva di reale mordente nel fraseggio quanto in difficoltà nella tessitura acuta e nelle esigenze virtuosistiche di una parte decisamente inadatta ai suoi mezzi e al suo temperamento. Meglio il Leicester di Shalva Mukeria, che vanta pronuncia chiarissima e tecnica tale da consentirgli di affrontare senza problemi una scrittura che insiste pervicacemente fra il passaggio e il registro acuto: il suo non sarà il canto più fascinoso possibile, giacché l’emissione, molto duttile ed educata, difetta d’una più ampia varietà di colori, ma riesce comunque difficile pensare oggi tenori in grado di risolvere meglio la parte. Di fronte alle goffe e controproducenti difese profferite con bello slancio tenorile da Leicester troviamo nell’ombra le secche accuse e la diffidenza di Lord Cecil, interpretato da Vittorio Prato, mentre Talbot, più accorto e discreto difensore di Maria, cui spetta almeno l’onore di raccoglierne la confessione e di condividere una delle scene più alte dell’opera, è impersonato da Gianluca Buratto, voce di basso d’indubbia rilevanza, ma ancora non amministrata al meglio, con il rischio di qualche suono appesantito o ingolfato. Efficace l’Anna Kennedy di Diana Mian.
Conduce tutto con sicurezza Alain Guingal, sempre affidabile nel controllo degli assiemi, nel rapporto con il canto e nella continuità narrativa, anche se non particolarmente fantasioso e coinvolgente: l’acustica destrutturata del Teatro Comunale, d’altra parte, non aiuta proprio nessuno (né promette d’essere risolutivo il costosissimo e ancora incompiuto nuovo spazio in zona Leopolda). Anche in rapporto alla problematicità della sala, però, la disaffezione del pubblico, che non arriva a riempire la platea, è dato davvero allarmante da osservare e che deve stimolare una seria riflessione e un progetto di rilancio e rinnovamento non solo economico, ma anche artistico e d’identità.
Il successo, peraltro, è assai vivo, con ovazioni inevitabili per la Diva Mariella già dopo ogni numero che la vede protagonista. Non mancano comunque applausi per tutti gli altri interpreti e in particolare, in questi momenti d’incertezza e precarietà, si accoglie con grande calore il coro del Maggio dopo la grande, magnifica preghiera del finale atto. Per loro e l’orchestra un segno di affetto, stima artistica e solidarietà professionale che non lascia indifferenti.