In questo giorno piovoso di maggio

di Roberta Pedrotti

 

Commuovente, intensa, e splendidamente realizzata la commemorazione del quarantennale della Strage di Piazza Loggia da parte del Teatro Grande di Brescia. Un'opera, nel senso proprio latino del termine, di profondo valore artistico e civile, capace di far vibrare le corde della memoria e di guardare con orgoglio al futuro con la stessa forza del teatro classico.

[Brescia, Il sogno di una cosa, i video]

BRESCIA, 9 maggio 2014 - Noi non c'eravamo. C'erano i nostri nonni, c'erano, adolescenti, poco più o poco meno, i nostri genitori. Noi non c'eravamo, ma siamo cresciuti sentendo raccontare di quella pioggia, dell'umidità feroce,che in quei giorni penetrava nelle ossa, di quel boato, delle ambulanze, delle lacrime. “Sono tornati”, i fascisti. Per noi gli anni Settanta non sono spensierati e sgargianti come in certi film o in certe canzoni americane. Sono gli anni del terrore e della violenza, gli anni delle ferite. A Brescia quel giorno pioveva, ce lo raccontano da quando siamo nati, in casa, ma mai abbastanza; pioveva e c'era la manifestazione, in piazza, perché troppe cose stavano accadendo a cui la città doveva rispondere: un attentato alla sede del PSI, un giovanissimo estremista di destra che salta in aria accidentalmente mentre trasporta esplosivo destinato a chissà quali altre vittime innocenti. Pioveva, e tanti si erano accalcati sotto i portici, proprio attorno a quel maledetto cestino dell'immondizia in cui una mano ancora impunita, armata da mani più potenti e ancor più sicure, aveva deposto l'ordigno. Quel pilastro ancora sbrecciato, con la lapide, il manifesto della manifestazione antifascista e i fiori, oggi è la nostra ferita. La portiamo dentro da prima di nascere, e sanguina ancora a Bologna, in val di Sambro, nel cielo di Ustica, in piazza Fontana a Milano. Sanguina anche a Santiago del Cile, dove pochi mesi prima Allende era stato massacrato da Pinochet e dai suoi uomini, anche loro protetti e impuntiti come gli assassini di Brescia e di tutte le nostre stragi.

Pioveva quel giorno, e si pianse, e si lavarono via le prove con gli idranti ordinati dal generale Delfino, ufficialmente per spazzare via l'orrore. L'acqua, le lacrime e il sangue impregnano la nostra storia fin da quel giorno. Fin da quel giorno, per quarant'anni, abbiamo atteso, e quando mai giustizia verrà fatta, e tutti coloro i quali hanno agito, ordinato, approvato, taciuto, insabbiato, camuffato e nascosto saranno individuati di fronte a tutti, allora forse la ferita smetterà di sanguinare, ma non verrà cancellata: resterà spezzato un sogno di quegli anni. Il sogno di una cosa che non si poteva forse dire, afferrare, realizzare, eppure non era un'utopia, era il desiderio di un mondo migliore, più giusto.

Fu Marx venticinquenne a scrivere che “da tempo il mondo custodisce il sogno di una cosa, del quale gli manca solo di prendere coscienza, per possederla veramente” e fu Pasolini a fare di quell'espressione il titolo di un romanzo. È ora il verso che dà il titolo all'opera, quando la Bella Italia, la scultura allegorica della piazza proprio in prossimità del portico fatale, intona “vi ascolto con voci accaldate | parlare di un sogno, | il sogno di una cosa che non nominate”. La perorazione finale all'apertura degli archivi, alla rivelazione della verità non perde di forza nemmeno all'indomani dell'annuncio da parte del governo dell'abolizione del segreto di stato, nemmeno in seguito alla riapertura del processo dopo la vergogna delle assoluzioni. È una perorazione universale di dignità civile, la fiera ribellione dopo quarant'anni di menzogne, depistaggi, insabbiamento. E le risponde l'applauso sincero, commosso, prolungato di un pubblico confluito con confortante partecipazione a questa prima assoluta. La città si è riunita nel segno della memoria, dell'identità, dell'orgoglio e lo ha fatto nel suo teatro, in questo momento vero cuore pulsante della comunità, vero tempio laico e civile delle idee, della condivisione, del confronto. Le uscite degli interpreti e degli artefici sono salutate con un'intensità toccante, lunghi, composti, densissimi applausi per il direttore, Carlo Boccadoro, per il suo ensemble Sentieri selvaggi, per il soprano Alda Caiello, per il versatile percussionista-performer Roberto Doni, per il coro Costanzo Porta diretto da Antonio Greco, per i ragazzi del secondo corso di teatrodanza della scuola Paolo Grassi di Milano, per gli autori Mauro Montalbetti, Marco Baliani e Alina Marazzi, per tutta la dirigenza del Grande e per tutti coloro che hanno avuto la lungimiranza, la sensibilità e la capacità di consacrare il quarantennale della strage e la giornata dedicata alle vittime del terrorismo.

 

Montalbetti sa scrivere musica. Non sembri affermazione tautologica o riduttiva: è una constatazione della tangibile sostanza della sua ispirazione, del suo talento, della sua padronanza tecnica. Il suo impegno si traduce in suoni con un rigore, una passione che vorremmo definire d'altri tempi, senza velleità, retorica, effettismo. Nella sua opera confluiscono diversi stili, diverse voci che la sua penna felice fa coincidere e dialogare con luminosa naturalezza, che la sua drammaturgia fa vivere con un preciso significato. Il coro s'ispira al madrigale del concittadino Luca Marenzio, l'eco del XVI secolo diventa la voce della polis, delle sue radici, della sua storia ferita. La Bella Italia osserva la tragedia, intona il suo racconto della manifestazione con parole chiare, scandite, melodiare apparentemente semplice e accorato, che occhieggia al cantautorato e alla canzone politica popolare, ma anche lale ultime espressioni del melodramma (ed è l'unico applauso a scena aperta a interrompere la continuità lancinante dello spettacolo). La triplice Pietà sulle vittime d'ogni terrorismo è accompagnata da un bellissimo solo di violoncello che si pone fra Bach e il Novecento; altrove echi jazz e progressive si intrecciano, voce degli anni '70, del tempo della Strage, al limpido linguaggio contemporaneo, consapevole, capace. Montalbetti sa fare teatro, seriamente. La sua musica è un tutt'uno con il lavoro registico e drammaturgico di Marco Baliani, con l'elaborazione video di Alina Marazzi (encomiabile il lavoro di ricerca di materiale storico, e stupefacente l'efficacia e la fluidità del suo confluire nei volti contemporanei, nelle riprese della Brescia attuale), tanto che non sapremmo dire dove si fermi, al di là delle etichette di locandina, il lavoro dell'uno e inizi quello dell'altro. Insieme realizzano un oratorio laico nel quale non c'è spazio per la vuota retorica. C'è la retorica sincera e sentita intesa come arte del linguaggio e dell'espressione efficace. C'è la politica intesa come valore, come ideale, come senso del bene comune e di appartenenza alla comunità, alla polis. Una polis composita, in cui le parole si uniscono, si sovrappongono, ma senza confusione, in una sorta di armonia celeste postmoderna, di concordia discors che si specchia in quella classica del Madrigale. Una polis eterna, impregnata delle sue radici classiche: il sangue che dilaga in terra è “scuro sangue” e la città “resterà appestata fino a quando qualcuno non dirà i nomi degli assassini”. Formule classiche, riferimenti a Edipo e alla sua Tebe; lo spirito della Tragedia è nella struttura, nella presa di posizione netta, decisa, senza inutili languori, senza sterili polemiche. Denuncia e pietà, ferme, sentite.

Parlano le figure astratte del soprano (Alda Caiello) e dell'attore (Baliani stesso), parla la Bella Italia, parla un carabiniere del servizio d'ordine in Piazza Loggia, un operaio, un passeggero dell'Italicus, un bambino impaziente di arrivare al mare il due agosto di passaggio a Bologna, una studentessa, due insegnanti bresciane. Erano Giulietta Banzi Bazoli, Livia Bottardi Milani, Clementina Calzari Trebeschi, Alberto Trebeschi e Luigi Pinto, erano gli operai Bartolomeo Talenti e Vittorio Zambarda, era il pensionato Euplo Natali. Erano le loro voci e quelle di ogni vittima, di ogni uomo e ogni donna. È teatro civile, profondo, e se si potrà dire che è spettacolo d'occasione, strettamente legato all'attualità, che difficilmente potrà entrare in repertorio, si risponderà che anche i Persiani di Eschilo raccontavano la contingenza e la stretta attualità, che mille e mille tragedie, messe, cantate, opere, sinfonie sono state concepite per un'occasione e a questa parevano indissolubilmente legate, eppure si sono sapute fare voce universale capace di riecheggiare per nuove voci per secoli e secoli. Si risponderà che qualunque sia il futuro di quest'opera, quel che importa è che sia andata in scena. Ora. A quarant'anni dalla strage. Perché l'arte e il teatro fossero la voce e il monito della società e della civiltà, il monito della memoria e lo sguardo della speranza. E noi potremo dire: sì, questa volta noi c'eravamo.

Il sogno di una cosa verrà trasmessa giovedì 15 e domenica 18 maggio da Rai5, sarà in scena ancora a Brescia, al Teatro Ariosto di Reggio Emilia e al Piccolo Strehler di Milano il prossimo autunno.

Foto Favretto