di Roberta Pedrotti
Approda a Torino il memorabile allestimento di Guillaume Tell firmato da Graham Vick per il Rossini Opera Festival 2013. Nel cast completamente rinnovato - con l'eccezione del sempre superlativo Gessler di Luca Tittoto - si impongono un eccezionale John Osborn, Angela Meade e Mirco Palazzi, ma non convince la scelta della traduzione italiana compiuta da Gianandrea Noseda.
TORINO, 11 maggio 2014 - Fino a non troppi anni fa Guillaume Tell pareva un'opera pressoché ineseguibile. C'era stata la grande impresa del Rossini Opera Festival nel 1995 (e, poiché ancor oggi c'è chi sostiene che l'edizione critica superi abbondantemente le cinque ore, ricordiamo che erano e sono all'incirca quattro le ore di musica nella versione integrale), ma, tramontata l'epoca dei tenori espada e resosi impossibile per una vocalità di quel tipo affrontare in modo completo e con cognizione stilistica la parte di Arnold, assortire una locandina all'altezza di tale mitico capolavoro sembrava comportare difficoltà asperrime.
Invece nel giro di una quindicina di mesi ci troviamo ad avere l'opportunità di assistere in Italia a tre tappe della coproduzione del nuovo allestimento firmato a Pesaro da Graham Vick nell'estate 2013 con tre compagnie differenti nei ruoli principali, e tutte assai interessanti. Dalle rive adriatiche passiamo a quelle del Po, dall'ombra della Palla di Pomodoro a quella della Mole Antonelliana e troviamo un nuovo cast, pur con i dovuti distinguo, assai rilevante.
Un distinguo si dovrà fare subito per l'eroe eponimo di Dalibor Jenis, che nonostante una tecnica imperfetta che gli impone qualche goffaggine e qualche morchiosa nasalità di troppo, è musicalmente attento, se non fantasioso o elegante, e nel complesso funzionale all'equilibrio generale dello spettacolo, ma il personaggio non convince. Guillaume Tell è prima di tutto un padre che di fronte agli eventi vede risvegliata la sua coscienza politica e si trova a essere il simbolo di un movimento rivoluzionario: se ne potrà essere privilegiata la componente intima, quella eroica o patriarcale, non si potrà farlo apparire un bulletto palestrato che, senz'essere particolarmente carismatico, gioca a fare il sovversivo.
Detto questo, c'innalziamo a livelli d'eccellenza con l'Arnold di John Osborn [guarda l'intervista], interprete di riferimento del ruolo ai giorni nostri, disarmante per la sicurezza con cui affronta non solo le puntature acute, ma soprattutto tutta la scrittura legata e il fraseggio ai vertici del pentagramma, impreziosendo l'aria del quarto atto con una serie di messe di voce e nuances espressive d'intelligenza musicale sopraffina. Si consideri poi la capacità di rendere mordenti e incisivi accento e linea di canto, coniugando il gusto e la consapevolezza stilistica odierna con l'eroismo e la passione che questo controverso personaggio deve pur sempre esprimere, per siglare una prova che non teme rivali e si pone fra le più rilevanti performance tenorili degli ultimi anni.
C'era, poi, grande attesa per il debutto italiano di Angela Meade, dopo il clamore e l'interesse suscitato dal suo apparire sulla scena del Metropolitan di New York. E le aspettative non vanno deluse, quando intona l'aria di Mathilde e il successivo duetto con Arnold nel secondo atto rimaniamo subito colpiti e affascinati da una vocalità ampia, ben dosata, di colore morbido e affascinante e solida impostazione. Davvero un elemento notevole, un vero piacere all'ascolto, che, vista la carriera ancor giovane, potrà senza dubbio maturare ancora quanto a fantasia, duttilità e intensità di fraseggio, a disinvoltura stilistica e attoriale. Ci auguriamo di riascoltarla nei nostri teatri con frequenza e di vederle acquisire sempre maggior sicurezza e confidenza con il gusto belcantista.
Fra i bassi ritroviamo da Pesaro il Gessler ormai irrinunciabile di Luca Tittoto: se non fosse un cantante di tale qualità verrebbe da crederlo un attore e un ballerino professionista, capace di spaziare senza problemi dal musical americano più indiavolato al cinema d'autore al teatro classico. Bisogna riconoscere che per questo personaggio Tittoto ha segnato, con Graham Vick, uno spartiacque fra un passato in cui il tiranno era poco più che un antipatico comprimario e un futuro che dovrà fare i conti con questa interpretazione.
Gradita novità è invece la presenza del pure bravissimo Mirco Palazzi come Walter [guarda l'ntervista]: timbro prezioso d'autentico basso, grande intelligenza musicale, eleganza e pregnanza del fraseggio. Un valore aggiunto per la produzione, dove si fa notare anche il promettente Fabrizio Beggi, Melchtal assai ben cantato e cui manca solo l'esperienza per rendere pienamente naturale e credibile la recitazione di un giovane nei panni di un vecchio saggio, riferimento della comunità.
Mikeldi Atxalandabaso sembra prestare più natura che tecnica all'aria del Pescatore, ma l'esito è comunque apprezzabile; Marina Bucciarelli pare troppo leggera per l'impeto richiesto nel drammatico finale primo, in cui Jemmy è fulcro musicale insieme con Rodolphe (il veterano Luca Casalin), ma, pur orbata dell'aria, si rinfranca nel prosieguo. Da parte sua, Anna Maria Chiuri è un'Edwige ben presente, per quanto un po' greve negli affondi rispetto allo stile rossiniano. Ryan Milstead si fa apprezzare come Leuthold, Giuseppe Capoferri completava il cast come Cacciatore.
Abbiamo citato tutti i personaggi nei loro veri nomi, ma a Torino sulla scena si parlava di Guglielmo, Arnoldo e Gualtiero, di selve opache e asili ereditari, operando la scelta anacronistica e francamente incomprensibile della versione italiana, per di più con un cast che, seppur di chiarissima dizione, annoverava nei ruoli principali un bulgaro e due statunitensi, nonché almeno tre interpreti che avevano già affrontato i rispettivi ruoli in francese.
Si presume che una traduzione abbia lo scopo di rendere comprensibile un testo a chi non ne conosca l'idioma originale. Ora, il francese letterario, ufficiale, è rimasto pressoché invariato nei secoli e uno studio scolastico della lingua ci mette tranquillamente in grado di leggere Montaigne e Rabelais come Hugo e Balzac o Simenon e la Duras. Sappiamo bene che con l'italiano non è la stessa cosa e che una fluida comprensione di Machiavelli, Leopardi (in prosa) o Manzoni non è altrettanto scontata senza l'acquisizione di maggiori competenze linguistiche. Ciò che poteva essere pienamente comprensibile nel XIX secolo non lo è oggi e molti versi della versione ritmica di Calisto Bassi, emendata dagli interventi censorî da Paolo Cattelan, risultano ben più ostici a un pubblico moderno e cosmopolita di quelli originali di Étienne de Jouy e Hippolyte Bis, che avrebbero potuto al più essere tradotti come d'abitudine in modo assai più chiaro nei soprattitoli.
È stato dichiarato che la scelta della lingua è venuta da un'esplicita richiesta della direzione della Carnegie Hall di New York, dove il Tell torinese sarà in tournée in forma di concerto. In tal caso non esitiamo ad affermare che gli statunitensi hanno commesso un errore colossale, senza se e senza ma. La traduzione di Bassi, infatti, anche con il ripristino dei riferimenti alla libertà, svilisce di molto il contenuto del libretto; basti pensare alla seconda aria di Mathilde, un'amara denuncia dell'arbitrio di un potere omicida, una sincera condivisione dei sentimenti di Arnold e del suo lutto che sono preludio chiarissimo della prossima conversione della principessa alla causa repubblicana e che invece in italiano suona come una querimoniosa lamentela sull'amore perduto, con melodrammatico richiamo all'ombra sdegnata del padre che “si oppone al nostro infausto amor”.
Soprattutto, però, la traduzione risulta antimusicale. Difficile da intonare con la scansione differente di parole e accenti, con melodie e note pensate da un autore ben esperto di voci in corrispondenza di determinate vocali ora stravolte, con una prosodia che va di pari passo con il senso del discorso musicale in un rapporto fondamentale per un tale altissimo capolavoro e destinato a sfaldarsi con il cambio di lingua. L'edizione critica, la Belcanto Renaissance hanno riscoperto un gusto e uno stile che i cantanti intelligenti hanno fatto propri come strumenti per compenetrare il rapporto fra musica e testo, senso e suono della parola e intonazione del canto. Per questo, paradossalmente, cantanti anche validissimi ma formatisi in altra temperie in fatto di gusto e repertorio, decenni fa, potevano apparire credibili in una versione addomesticata, alterata del Tell, mentre oggi quelle stesse parole sembrano mal adattarsi alla linea melodica. Si ascolti il duetto “Tutto apprendi o sventurato” (“Oui, vous l'arrachez à mon ame”): la Freni e Pavarotti risultano perfettamente credibili, nel loro contesto, nel loro retroterra, nel loro linguaggio e nel loro modello di fraseggio; la Meade e Osborn sono splendidi, siglano uno dei momenti più belli dell'intera recita, ma la sensazione è che quelle parole non combacino con la partitura. L'idea musicale nostra e degli interpreti coincide oggi con uno stile belcantista e francese, con una cognizione di fraseggio, prosodia, musicalità fondata sulla specifica sonorità, sul ritmo della lingua originale. In italiano la cabaletta di Arnold era divenuta un corrispettivo di quella di Manrico, oggi quel testo ci appare inevitabilmente fuori luogo, così come tutto l'impeto romanticheggiante dei versi di Bassi rispetto alla peculiarità poetica di quelli originali.
In un mondo sempre più cosmopolita, nel quale la conoscenza delle lingue straniere è sempre più diffusa e la tecnologia permette ormai a tutti i teatri di dotarsi di un sistema di traduzione simultanea, il lavoro dell'interprete sul rapporto fra suono e parola (un altro esempio, l'allitterazione sussurrante e il ritmo giambico del coro dei soldati “En vain il veut nous fuir! Suivons, suivons sa trace!” gettati al vento con un letterale ma scialbo “Invan ne vuol fuggir! Sull'orme sue si mova!”) può costituire una ricchezza straordinaria per un teatro musicale moderno degno di questo nome, e potendo contare su un buon cast e su una formidabile messa in scena è davvero un peccato che si sia persa questa occasione.
Peccato davvero, perché, già partendo da questa ingombrante premessa linguistica, la concertazione di Gianandrea Noseda è parsa meno convinta e unitaria che in altre occasioni. Alcuni accompagnamenti, soprattutto nei momenti più lirici o narrativi, sono invero ispirati e confermano la qualità della bacchetta, come nel duetto degli amanti, nel terzetto del secondo atto (il più convincente, dopo un primo piuttosto insipido) o nella preghiera di Edwige che apre il finale. Altrove non manca qualche durezza, qualche pesantezza, un'eccessiva presenza delle percussioni rispetto a un organico giustamente più snello. I tagli sono una dura necessità, e accettiamo di buon grado la caduta di un solo numero, l'aria di Jemmy già cassata al debutto parigino del 1829, e ci rassegniamo ai colpi di forbice interni alle riprese o alle danze, anche se talora (la stretta del duetto d'amore, quella della seconda aria di Mathilde) si ha la sensazione di soluzioni davvero troppo sbrigative rispetto alla struttura formale e al respiro di questa scrittura.
Anche la prova di orchestra e coro convince soprattutto nel secondo atto, per poi fluire con sicurezza verso il finale.
Dell'allestimento di Graham Vick avevamo scritto la scorsa estate [per un'analisi più dettagliata leggi qui la recensione] e, come abbiamo già avuto modo di accennare, non si può non ribadirne il valore. Una lettura lucida, tesa come un arco dal momento stesso in cui si entra in sala fino all'ultima nota, una ricchezza di dettagli iscritta in un'assoluta chiarezza di simboli e narrazione, una profondità di pensiero e di cultura per cui ogni riferimento è ricchezza e non dispersione, sia che la citazione si colga o meno. Vick dichiara di amare il cinema italiano e guarda palesemente a Novecento di Bertolucci, ma gli austriaci biancovestiti che attraversano la scena nel primo atto con la loro spocchia classista potrebbero essere usciti da un film di Sergio Leone e la perversione del potere decadente è raccontata poi raccogliendo il testimone di Visconti e Pasolini, e guardando oltre. Guardando a un teatro musicale dove ogni dettaglio è pensato in rapporto al testo nella sua complessità di musica, di canto, di gesto, sguardo, danza, psicologia del singolo e contenuto ideale. Non tradisce né sovraccarica Rossini nella consapevolezza di sottintesi che affondano le radici in Schiller o del contesto politico contemporaneo alla concezione dell'opera o che, in futuro, in essa si potrà specchiare, come in un manifesto dell'umanità alla ricerca di un'eutopia di giustizia e libertà. Anzi, narra con tale patente naturalezza da avvincere e commuovere – a tratti con struggente poesia – fino a persuaderci che non possa esistere altro Tell all'infuori di questo, che il lavoro di Vick (ripreso da Lorenzo Nencini) con lo scenografo e costumista Paul Brown, con il coreografo Ron Howell (ripreso da Ilaria Landi) e il creatore luci Giuseppe Di Iorio abbia toccato vertici di compiutezza, chiarezza e perfezione difficilmente avvicinabili. E dispiace solo che Noseda nel finale ultimo abbia preferito toni trionfalistici un po' chiassosi all'incanto stupefatto che dovrebbe accompagnare la scoperta della libertà come una continua ascesa verso l'avvenire, emancipati dall'asettica scatola bianca imposta dalla tirannide. Dispiace che una frase chiave come "Je suis Guillaume Tell, enfin!", fondamentale nella costruzione dell'eroe in questo disegno registico, in italiano non abbia la stessa pregnanza e la stessa sfumatura di senso ("Ancor io son Guglielmo Tell!"). Dispiace che durante l'aria di Arnold un inghippo tecnico abbia bloccato la proiezione del filmato dell'infanzia del giovane, cruciale per comprenderne il travaglio psicologico e la presa di coscienza politica, il rapporto ritrovato con le proprie radici e la decisione infine definitiva di seguire le orme del padre mettendo la propria esperienza militare al servizio della Rivoluzione. Peccato, perché lo spettacolo nel suo complesso è di quelli che si scolpiscono nella memoria per l'eternità e i motivi d'entusiasmo non sono mancati.
Il colpo d'occhio sulla sala del Regio piena ed esultante resta, infine, il miglior coronamento di un tale capolavoro in un allestimento che è nondimeno un capolavoro, un tutt'uno con la partitura, affidata a un cast per molti versi fra i migliori possibili oggi.