di Francesco Lora
La ripresa della Clemenza di Tito allo Staatsoper scuote dall’assuefazione e dà adito a una critica acerba: Vienna e Salisburgo dettano legge sull’interpretazione del teatro mozartiano; ma con quali mezzi ed esiti?
VIENNA, 11 maggio 2014 – Le esecuzioni mozartiane di riferimento, comprese quelle di opera italiana, vengono da Vienna e Salisburgo: molti lo credono, ma è una gran fandonia, utile al mercato didattico, teatrale e discografico, nonché allo smercio di palle di cioccolato e souveniristica varia. Opera italiana seria o buffa, ossia in particolare Idomeneo, Le nozze di Figaro, Don Giovanni, Così fan tutte e La clemenza di Tito: sono titoli che nei teatri austriaci non mancano mai, e che proprio lì sono oggetto sia di culto smodato sia di mistificazione incontrollata. Patiscono un paradosso: la sottrazione da sé dell’italianità che li costituisce; direttore, regista e cantanti, cioè, sono scelti in primis tra chi non ha pratica della nostra lingua, letteratura, prassi teatrale e musicale. Insistendo su questa via per decenni e decenni, il fenomeno ha dato assuefazione agli italiani stessi, ormai insensibili a pronunzie deformi, fraseggi piatti, pseudofilologismi risibili. Su quest’ultimo punto, proprio chi si erge a garante della verità è talvolta spudorato ciarlatano: al Theater an der Wien di Vienna, per esempio, il decano Nikolaus Harnoncourt ha diretto una trilogia Da Ponte - Mozart dove i recitativi erano a bella posta più biascicati che cantati, monotoni nella parola e vanificati nella musica; perché, Harnoncourt sostiene e molti lo credono, ai tempi di Mozart si faceva così. Fantamusicologia.
Senza molto clamore, ma rinnovando un segnale preoccupante, lo Staatsoper di Vienna ha ripreso per tre recite, dall’11 al 18 maggio, un suo recente allestimento della Clemenza di Tito. Ne è venuto fuori un preclaro documento di stoltezza, a partire dalla regìa di Jürgen Flimm, dalle scene di George Tsypin e dai costumi di Birgit Hutter, e da lì passando senza sconti alla compagnia di canto. L’impianto teatrale e visivo, semplicemente, non è informato su contenuti e strutture dell’opera, né sulla cultura che presiede al suo essere. Scene e costumi, non astratti ma casuali, meri pannelli scorrevoli e vestiti qualsiasi, non definiscono né contesti né caratteri. La regìa non afferra il significato dei versi e i messaggi della musica (leggi: Metastasio e Mozart) e imposta una sorta d’annacquata pastorale d’invenzione, la quale eredita manierismi e carinerie del Wolfgang Amadé da cartolina e li contamina con la spruzzata di sesso che nel mondo germanico non si negherebbe ormai nemmeno ad Assassinio nella cattedrale. Provocazioncelle da grulli: l’opera vien fatta iniziare con Vitellia e Sesto che, dialogando in medias res, si rivestono dopo chissà quali rotolamenti nel letto; ma qualsiasi essere umano sa meglio di un Flimm qualsiasi che, se la storia è quella di un uomo innamorato tenuto in scacco da una donna che gliela fa sudare, non si potrebbe arrivare a un colpo di stato con la premessa di amplessi già abituali e già forse forieri di noia.
La compagnia di canto prosegue sulla via dell’insufficienza. È insufficiente a priori Toby Spence come Tito Vespasiano: la parte richiederebbe una voce di tenore eroico e baritonaleggiante, mentre qui si ascolta una voce evanescente come una bolla di sapone, esausta già dopo la prima aria, annaspante nel salire e malferma nello scendere, grottesca in agilità pasticciate; per non parlare dell’accento drammatico e della pronuncia, che combinati restituiscono recitativi da ubriaco. Ed è insufficiente a priori Véronique Gens come Vitellia: il garbato soprano francese ha il proprio habitat negli affetti tenui della tragédie lyrique (Rameau soprattutto, colonne d’Ercole in Gluck) e non certo nei panni di una grande primadonna d’opera seria all’italiana. Nella sua esibizione si coglie soprattutto la gamma dal disagio alla disperazione: la donna ambiziosa e spregiudicata diviene, per tensione dell’interprete, un’isterica senza strategia; alla cantante mancano tout court le note: nel Finale I le volate al Re sopracuto sono rantoli senza punto d’arrivo, e nel rondò la discesa al Sol grave è uno sbracato fiotto d’aria calda. A quale pro spingersi su terreni impraticabili, se i prerequisiti dell’impegno e le risorse dell’artista sono così vistosamente distanti tra loro?
Del pari, è arduo comprendere per quale merito Michèle Loisier, tanto genericamente educata quanto comune voce di soprano corto, si veda qui tributata, e in uno tra i primi teatri del mondo, la vertiginosa e per lei troppo larga parte di Sesto: non ha da recarle un timbro personale, né un virtuosismo notevole, né soprattutto la necessaria pregnanza espressiva e l’auspicata vivacità d’eloquio. Eppure, ad aver coscienza della loro profondità, basterebbe mettere i piedi nelle orme di Metastasio. Un maggior decoro si trova nelle parti dove l’impegno è meno gravoso: Chen Reiss, come stilizzata Servilia, e Margarita Gritskova, come caloroso Annio, non hanno strali da temere. E il migliore di tutti, manco a dirlo, è l’italiano Alessio Arduini nella piccola parte di Publio: benché l’interprete non pecchi mai d’eccesso, il suo canto straripa di timbro succoso, sani armonici e recitativi naturali, scorrevoli e comunicativi, fino a fissare un termine di confronto impietoso verso i colleghi. Dal podio, Adam Fischer lancia una rete di salvataggio verso il palcoscenico: mano non miracolosa, ma esperta e sicura. Deprecabile la quantità di tagli, con recitativi ridotti a mozziconi senza senso: se la memoria non tradisce il critico, cade persino quello trascritto sul sipario, con parecchi errori di ortografia e organizzazione versale. Felicitazioni?