di Giuseppe Guggino
Il Don Giovanni di Mozart torna al Massimo di Palermo con il fuoriclasse Carlos Àlvarez e l’altrettanto bravo Mattia Olivieri (in seconda compagnia) nel ruolo eponimo. Il maestro Stefano Ranzani dà prova di grande eclettismo stilistico sul podio, viceversa convincono poco le scelte del versante femminile dei cast nonché l’impostazione sfuggente e sostanzialmente irrisolta della parte visiva.
Palermo, 16 e 17 Maggio 2014 - Quando si porta in scena un capolavoro insuperabile della storia della musica come Don Giovanni di Mozart la tentazione di proporre qualche stramberia – se non altro per far apparire giustificabile la produzione di un nuovo allestimento – è comprensibilmente molto forte. Non sa sottrarsene il Teatro Massimo già a partire dalla scelta della “versione” proposta, orbata della fuga finale, dietro giustificazioni sia di tipo drammaturgico che filologico; se le ragioni drammaturgiche possono avere una loro coerenza anche sul piano musicale per il fatto che il concludere con la morte di Don Giovanni restituisce all’opera una sensazione “conchiusa” – dicendola à la Savinio – con l’accordo di re minore che dà avvio all’ouverture (ma potrebbe osservarsi che le ultime nove battute della morte di Don Giovanni presentano un’inattesa modulazione in re maggiore, come se fosse lo stesso Mozart a voler ricusare l’idea di circolarità!), le motivazioni di tipo filologico non reggono giacché il tentativo di proporre la versione di Vienna, quindi con le arie aggiuntive “Della tua pace” (No. 10a) e “Mi tradì quell’alma ingrata” (No. 21b nella versione più acuta in mib maggiore), senza cassare l’aria del tenore nel secondo atto, senza praticare i tagli degli inserti di Leoporello e Don Giovanni nella scena della cena col Commendatore e senza eseguire il duetto Leoporello-Zerlina “Per queste tue manine” (No. 21a, di ascolto vieppiù raro) e recitativo secco con il contadino, configura – di fatto – un gran pasticcio filologico tra la versione di Praga e quella di Vienna.
Ciò detto, le altre scelte del maestro Stefano Ranzani sul podio, direttore a dire il vero di poche frequentazioni mozartiane, sono inappuntabili e quasi stupiscono per la modernità stilistica del fraseggio e delle scelte agogiche; ogni dettaglio della partitura appare sottolineato, dalla peculiarità timbrica che produce il violoncello quando suona gli stranissimi “Mfp” scritti da Mozart nell’ultima parte dell’aria del catalogo, agli interventi dei fiati veramente notevoli dell’orchestra del teatro; viceversa non sempre riesce ad ottenere dagli archi quell’articolazione di suono brillante che la sua impostazione di lettura avrebbe necessitato, ma senza che ciò intacchi più di tanto la prova complessiva, corroborata anche da una buona prestazione del Coro diretto da Piero Monti. Discreta, quasi cameristica la realizzazione del basso continuo dei recitativi secchi con soltanto un timido Giacomo Gati al fortepiano.
Nei due cast si impongono per bravura e compiutezza di lettura entrambi gli interpreti del ruolo eponimo. Carlos Àlvarez è un Don Giovanni semplicemente perfetto, dallo scavo del personaggio alla realizzazione esemplare dei recitativi, dal canto sempre morbido e seducente per timbro e qualità di emissione alla totale assenza di cadute di stile; in seconda compagnia fa bella mostra un giovanissimo Mattia Olivieri, dotato di una vocalità più chiara e meno maturo come interprete rispetto all’illustre collega spagnolo, eppure ugualmente seducente nella realizzazione del personaggio e nella sua declinazione canora. Ottima anche la coppia popolana dell’opera con Barbara Bargnesi che fa una Zerlina deliziosa, molto ben cantata (sebbene con qualche occasionale problema nella gestione dei fiati) e un bravissimo Biagio Pizzuti che, seppur praticamente agli inizi di carriera, possiede un controllo del proprio mezzo tale da farci augurare il riascolto in ruoli di maggiore consistenza rispetto a quella di Masetto; entrambi sono messi alla prova dal tempo vorticoso staccato dal podio in “Giovinetti che fate all’amore”, ma se la cavano con grande onore. Come Leoporello s’è ascoltato entrambe le serate Marco Vinco (essendo indisposto il servitore di Don Giovanni della seconda compagnia), cavando un’ottima impressione sulla realizzazione scenica sebbene nettamente sbilanciata sul versante buffo, e qualche riserva sul timbro legnoso e sul fraseggio sostanzialmente monocorde tutto sul forte, spesso a danneggiare gli equilibri negli ensemble quando i Don Giovanni delle due compagnie sanno dispensare mezze voci con souplesse. Giustamente spaventoso il Commendatore di Michail Ryssov, molto ben cantato con l’onere delle due arie, come già detto, il Don Ottavio in prima compagnia di Tomislav Mužek, a suo agio nell'emissione anche dei gravi, a differenza di Giulio Pelligra, Don Ottavio in seconda, piuttosto esangue in basso e, per contro, con qualche eccesso di spinta nella regione più alta del pentagramma. L’anello debole di entrambe le compagnie è rappresentato da Donna Anna e Donna Elvira – spiace dirlo – tutte dalla consistenza vocale e di colore idonei a Zerlina. Se Rocio Ignacio, Donna Anna in prima, batte ai decibel la seconda, Laura Giordano, lo fa però ricorrendo ad un’emissione più prossima allo strillo ed entrambe sembrano più la prima buffa che non la primadonna seria; e questo risulta francamente inaccettabile più ancora che nelle arie, nei recitativi obbligati, caratterizzati da un grandissimo spessore tragico e che necessiterebbero ben altro colore vocale, ben altro afflato. Complessivamente risulta più accettabile la Giordano, che però giunge stremata e tremendamente pigolante al Rondò del secondo atto. Analogamente insoddisfacente Maija Kovałevska, voce afflitta da un perenne vibrato che le fa sembrare preferibile la Donna Elvira del secondo cast, Ellie Dehn, vocalmente meglio assestata anche se meno in grado di dominare gli sbalzi di ottava della scrittura da tragédienne gluckiana delle sue arie; arrivando entrambe sfinite all’aria aggiunta nel secondo atto, è lecito domandarsi il perché dell’interpolazione dalla versione di Vienna.
Il nuovo allestimento prodotto dal teatro in proprio (sebbene l’ultima produzione palermitana del 2002 - con cui Scaparro ambientava le vicende del burlator di Siviglia in un teatro all’italiana disegnato Lele Luzzati - non sia mai stata né ripresa né data a noleggio ad altri teatri) e affidato dall’attuale gestione a Lorenzo Amato, consulente artistico della medesima, si propone la valorizzazione delle risorse interne impegnando il direttore degli allestimenti Angelo Canu e la capo sartoria Marja Hoffmann rispettivamente come scenografo e costumista, in perfetta continuità con la precedente sovrintendenza, sotto cui avevano realizzato un Barbiere di Siviglia e Der König Kandaules di Zemlinsky.
A Canu è richiesto dal regista un impianto scenico con un volume edilizio di rivoluzione (architettonicamente omogeneo nell’intradosso, e più composito nella superficie d’estradosso) con una terrazza a balaustra soprastante, montato su un girevole, al centro del quale si può trovare un giardino all’italiana, un cimitero più simile ad un Golgota di croci, una sorta di caffè all’aperto dove si consuma l’ultima cena di Don Giovanni oppure ancora il nulla assoluto. Tuttavia le infinite risorse offerte dall’impianto girevole non sono minimamente messe a frutto dalla regia per deliberata scelta, così come si legge nell’intervista contenuta nel programma di sala, così da non voler vedere in questo edificio di sintesi né il palazzo di Donna Anna né quello di Don Giovanni né nient’altro precisamente; ciò rappresenta un forte limite, perché alla fine la rotazione casuale di questo volume senza che i prospetti di intradosso né porzioni di quelli d’estradosso abbiano la minima connotazione spaziale pone sempre come insoluta la caratterizzazione d’ambiente: se è vero che Da Ponte non è particolarmente dettagliato nelle indicazioni, scrive pur sempre “Giardino. Notte”, “Strada. Notte”, “Giardino di Don Giovanni”, “Strada davanti a una locanda”, “Atrio terreno in casa di Donna Anna”, “Loco chiuso in forma di sepolcreto. Statua del Commendatore” , “Camera tetra in casa di Donna Anna”, “Sala; una mensa preparata”. L’impiego della rotazione durante i numeri e non nell’azione vera e propria, che si svolge più nei recitativi secchi, pare più un compiacimento scenografico autoreferenziale, fine a sé stesso, non finalizzato alla distinzione di ambienti tra interni ed esterni e alla fine, alla terza rotazione, la noia e lo spaesamento hanno il sopravvento. I costumi vanno dal rispetto dell’epoca settecentesca per Don Giovanni e Leoporello, al tailleur atemporale per Donna Anna e Donna Elvira (nero e bianco rispettivamente), a costumi contemporanei (dalle declinazioni cromatiche invero assai pacchiane) per tutto il ceto popolare.
La regia vera e propria è un disastro, un’accozzaglia di amenità. Il tentativo di attualizzazione del mito dongiovannesco si traduce nel duello con il commendatore che (in abiti atemporali) si batte con la sua spada e Don Giovanni il quale (in abiti d’epoca) si difende e offende mortalmente con una bottiglia di birra preventivamente spaccata al muro. Per carità, quando al libretto si sovrapporre una lettura drammaturgica forte, anche controversa purché coerente, si possono accettare alcuni punti configgenti con il testo intonato, ma se Leporello deve cantare “O statua gentilissima / del gran Commendatore” e la statua… non c’è… così come non c’è un’idea che sia una, allora l’incongruenza diventa proprio errore; idem quando canta “L’uom… di… sasso… l’uomo… bianco…” e l’uomo appare in carne ed ossa, per di più vestito di nero! Insomma a rendere geniale una regia di Don Giovanni ci vuole qualcosa in più che far aggirare Donna Elvira con una camicia lenta che per tutto il secondo atto si accarezza il grembo evidentemente pregno; per un Don Giovanni guardabile serve almeno un’amministrazione degli ingressi dalla quinta di Donna Elvira che non suscitino ilarità, perché è un personaggio che nulla deve aver di buffo. La recitazione è sostanzialmente affidata alla presenza scenica dei solisti, quando c’è; ne è prova l’esito completamente diverso che si cava nella scena di Don Giovanni travestito da Leporello dove Àlvarez è assolutamente composto, mentre il giovane e più esuberante Olivieri si abbandona a qualche caratterizzazione eccessivamente ipertrofica e caricata.
Un discorso a parte meritano le non indimenticabili coreografie di Gianluca Stiscia, abituale collaboratore di Amato al Teatro Verdi di Salerno. Passi la pantomima del giovanissimo Don Giovanni nudo rivestito da un giovane Leporello (certo… deve averne mangiate di pavias e tortillas questo giovane smilzo per crescere con la prestanza fisica di Àlvarez!), ma inscenare un ballo di gruppo, massima espressione della imbecillità preordinata da villaggio turistico, quando Mozart si trasforma in Boccherini e sovrappone tre quintetti metricamente differenti a mo’ di “folìa”, massima espressione della genialità sregolata, è un’idea del tutto demenziale perché in antitesi con quello che si ascolta. La morte di Don Giovanni è risolta con una pantomima, con l’affastellamento attorno all’impenitente di corpi di donne (forse sue precedenti vittime?) assieme anche a quattro corpi di uomini in mutande (che il burlator di Siviglia fosse bisessuale?). In mezzo a tutta questa confusa congèrie di trovate, rimane il disegno luci di Alessandro Carletti a creare qualche azzeccata atmosfera carica di suggestione, perché per il resto l’inconcludenza regna sovrana. Ciò nonostante il pubblico applaude. Giocando con le assonanze, perciò, il Dissoluto è punito e l’insoluto assolto.
foto Studio Camera