di Roberta Pedrotti
Prima opera ad andare in scena, seppur in forma oratoriale, al nuovo Teatro dell'Opera di Firenze, Roberto Devereux segna anche il debutto italiano di Mariella Devia nel ruolo di Elisabetta, ideale coronamento di un percorso fiorentino intrapreso nel 2011 con un concerto nel quale eseguì i quadri finali dalla cosiddetta Trilogia Tudor di Donizetti, cui seguirono nel 2012 Anna Bolena e, lo scorso anno, Maria Stuarda. Al fianco della Devia splende l'astro nascente di Chiara Amarù.
FIRENZE, 20 maggio 2014 - La grandezza di Donizetti come drammaturgo musicale è già tutta lì, nell'ouverture, con quei due temi a battagliare in un turbine di passioni contrastanti: l'imperturbabile e solenne incedere di God save the Queen, latore d'una certa qual inafferrabile mestizia, e l'involo sfrontato e gagliardo dell'estremo pensiero d'amore di Devereux verso Sara. Ecco la Regina, la ragion di stato, la donna e l'amore deluso, la solitudine, il contrasto, il trionfo sentimentale di una rivale che nemmeno la scure sul patibolo può soffocare. Da qui la grandezza si fa genio, non deliberatamente rivoluzionario, ma plastico come non mai nella drammaturgia nel rapportarsi a un libretto di Salvadore Cammarano che si innalza nella mobilità sorprendente delle forme musicali, con squarci ariosi che promettono e non mantengono tempi d'attacco di numeri chiusi in recitativi formidabili, o un secondo atto costruito come un unico finale centrale, o ancora un epilogo che reinventa la classica ripresa della cabaletta, su una seconda strofa, trasformando la ripetizione musicale nell'evoluzione di un unico discorso.
La discriminante per l'interprete diviene allora la prospettiva dell'approccio e del rapporto con questo materiale, se ci si sovrapponga al testo o se si entri in simbiosi con esso, se si lavori con la musica intendendo la preposizione in senso strumentale o di unione. Insieme con Donizetti, nella sua poetica, e non sopra di essa, si pone Mariella Devia [leggi l'intervista], e si sarebbe tentati di parlare di Elisabetta Tudor come di una delle sue più esaltanti creazioni, se non ci trovassimo di fronte piuttosto all'incarnazione maieutica del senso ultimo di questa musica, del suo più profondo contenuto poetico e drammatico. Ricorda in un certo senso Lucrezia Borgia, così infelice nel privato anche se “possente il destino la fe'”, questa Elisabetta, con i suoi sguardi taglienti che per un istante solo attraversano la sala come un bisturi, per quelle frasi non meno affilate, rilucenti di ghiaccio e diamante, o, viceversa, quasi trattenute nel pudore, nel dolore, nel dovere del regale riserbo. Ma Lucrezia è potente suo malgrado, è madre; per Elisabetta quel potere che le spettava per via ereditaria è stato comunque una conquista dura e continua, ha comportato la rinuncia a quella femminilità e a quella seduzione che invece sono insiti della figura della Borgia. Elisabetta discende dalla riflessione sulla solitudine del potere del Tito metastasiano. Dopo di lui, tradito e costretto a perdonare, votato unicamente al bene dello Stato, vedremo nel melodramma ottocentesco scindere la carica pubblica dall'identità privata il Giacomo V di Rossini (che ama Elena, la donna del lago, nelle vesti del cacciatore Uberto, ma dal trono rinuncia nobilmente a lei) o il Marin Faliero di Donizetti (“Il Doge ov'è? Quella larva è già sparita, sol Falier vedete in me”). Vedremo l'Elisabetta regina d'Inghilterra rossiniana sussurrare a Leicester “la Regina or non v'è, ma Elisabetta” per poi rassegnarsi all'amore di lui per un'altra donna e concludere, non senza una certa qual nevrosi virtuosistica, “Fuggi amor da questo seno, non turbar più il viver mio. Altri affetti non vogl'io che la gloria e la pietà”. In situazione simile, la stessa sovrana inglese non troverà tale apparente, illuminata, pacificazione (in perfetta sintonia con il clima della Restaurazione), ma cederà sopraffatta dall'estrema disillusione, dalla solitudine di una vita consacrata al proprio ruolo pubblico: “Ti calma... rammenta le cure del soglio: chi regna, lo sai, non vive per sé” l'ammonisce il coro e la sua risposta, nel delirio visionario, è di sconfitta e rinuncia “Non regno... non vivo...Escite... Lo voglio... Dell'anglica terra sia Giacomo il re”.
Da questo punto sembra partire l'Elisabetta della Devia nel costruire istante per istante una sovrana identificata con il suo ruolo e il suo rango, dalle maniere e dal contegno quali ci potremmo attendere al simbolo stesso dello Stato, dalla nobiltà incarnata della Vergine e Madre del suo popolo. Ma questo scudo cela una donna che sta vedendo sfiorire con gli anni la propria femminilità senza averla potuta vivere, che sa benissimo di non avere speranza d'esser sinceramente ricambiata dal giovane, fascinoso e avventuriero conte di Essex. Eppure si aggrappa a questo sogno come a un suono estatico e paradisiaco, e così è nella sua voce, prima di trattenere lo spasimo rabbioso e disperato della delusione di fronte a un tradimento rimosso ma, lo sa bene, inevitabile. Mormorando “pria d'offender chi nascea dal tremendo ottavo Enrico, scender vivo nel sepolcro tu dovevi, o traditor” è terribile perché è commuovente, perché miracolosamente a far intendere il dolore profondo sottinteso a quelle parole pur costringendolo nella misura sdegnata di una Regina ferita, abituata a misurare ogni parola, ben conscia che basta un suo battito di ciglia a decretare la sorte di una Nazione, senza bisogno di trascendere. La dignità le impone un contegno che è la più fiera delle torture, perché è sì l'affermazione della sua forza di fronte a chi l'ha tradita convinto del proprio ascendente su di lei, ma anche la maschera di ferro imposta dalla ragion di Stato. Il primo “parla” le sgorga come un languido sussurro dal cuore, sottilissimo, quasi stesse per cedere, il secondo, fra la supplica e l'indignazione, si ricompone verso la lancinante scolpitezza della condanna a morte. E impone “Va', la morte sul capo ti pende” cantando, furiosa, rassegnata, regale. Questa è la sovrana che ha dato il nome alla Golden Age inglese, questa è una Donna.
Non per nulla il corto circuito è innescato dal fatto che della concretezza politica delle accuse a Devereux mai si parli effettivamente e tutto si giochi sul piano personale, fra le invidie dei cortigiani, le gelosie (ben fondate) di Nottingham ed Elisabetta: la dimensione pubblica è la gabbia delle passioni, la tragedia è inevitabile per tutti, muovendosi nel labirinto su cui incombe l'ombra impersonale del Potere e del Dovere. In questo labirinto ci si dimentica perfino della perfezione per cui Mariella Devia è sempre stata famosa, perché quel che conta è come vive e dà forma al dramma illuminando ogni piega della poetica belcantista, ogni sfaccettatura dell'incandescente stilizzazione del nostro primo Ottocento.
Bisogna, però, riconoscere che in questo labirinto Elisabetta può specchiarsi in un'altra femminilità, questa volta giovane e ricambiata nei sentimenti, ma cui egualmente la felicità è negata dal dovere e dalle maschere sociali: acquista il peso di un'autentica temibile rivale la Sara di Chiara Amarù, che trae il personaggio dalla penombra cui è sovente relegato per sbalzarlo con la freschezza e la maturità d'uno strumento ben tornito, lucente e venato di muliebre dolcezza mezzosopranile. L'eleganza, la passionalità sempre ben stilizzata, l'autorità, ove occorra, del porgere, sempre con squisita musicalità, sempre incisiva e disinvolta in tutta la tessitura ce la fanno sognare protagonista della Favorite e lasciamo il teatro entusiasti d'aver trovato una degna rivale per la Regina, un'ottima cantante con personalità e sensibilità d'Artista.
Manca invece il vero fulcro della vicenda, l'oggetto del contendere, ovvero un tenore che meriti veramente la qualifica di eponimo per tutte quelle qualità di fraseggio, mordente, personalità e affinità al senso ultimo del dramma in musica tali da definire il carattere contraddittorio, il fascino e l'hybris del Conte di Essex.
Non si può negare che Celso Albelo abbia una dote naturale preziosa quanto generosa, perfetta per questo repertorio, che sia un cantante di pregio. Gli manca, però, quel lavoro di classe superiore che rende invece straordinaria la prova della Devia, manca quella riflessione sulla parola, sul colore, sull'accento nell'emissione, che non trova quella duttilità, quella plasticità del dire nel belcanto con impeccabile musicalità e spiccata personalità. Albelo sfodera acuti magnifici, ma non cesella allo stesso modo declamati e cantabili e il personaggio resta in superficie.
Paolo Gavanelli sostituisce Gabriele Viviani, improvvisamente indisposto, e la situazione imporrebbe dunque un magnanimo velo pietoso, ma, certo, per un evento di questa importanza dispiace che non si sia trovato di meglio, almeno per garantire un minimo di equilibrio stilistico (senza parlare di musicalità e intonazione) ai pezzi d'assieme.
Appropriati il Lord Cecil di Antonio Corianò, il Sir Gualtiero di Gabriele Sagona e Davide Giangregorio come paggio e famigliare di Nottingham. Detto che l'orchestra del Maggio e il Coro (specie dopo il felice acquisto del maestro Lorenzo Fratini) sono sempre all'altezza della loro fama e della loro storia, torniamo con Paolo Arrivabeni a riflettere sulle prospettive dell'interprete rispetto alla partitura. Il concertatore non impone la propria personalità sul testo, facendone strumento del proprio ego, ma più che entrare nel capolavoro donizettiano si pone al di sotto di esso. Accompagna, e non trae tutto il partito possibile da una scrittura orchestrale che potrebbe farsi ben più intrigante veicolo drammaturgico in rapporto con le voci (penso, per esempio, al mordente che un maestro più fantasioso avrebbe potuto trovare negli archi per “Vivi ingrato”, nel canto della Devia un vertice quasi perturbante). Sceglie giustamente la versione integrale, ma in questo caso qualche colpo di forbice sulle riprese di Nottingham sarebbe stato segno di sensibilità pratica contingente, tanto più che nel finale secondo non mancano momenti di confusione e in generale un troppo marcato squilibrio fra l'emissione perfetta e lo stile immacolato della Devia, lo slancio tenorile di Albelo e gli interventi stentorei e sgraziati di Gavanelli. Nulla, comunque, che abbia pregiudicato l'esito trionfale della serata.
Trionfo annunciato? Forse, anzi, certamente. Ma quando un'artista sa mantenere viva la tensione e farsi seguire a bocca aperta, magnetica e ipnotica, dal primo all'ultimo istante in cui fa sì che parola e nota, senso e voce prendano corpo insieme, allora è indubbio che quel che si rinnova ogni volta è un intatto stupore.