di Francesco Lora
Al Festival di Pentecoste di Salisburgo, quest’anno dedicato per intero a Rossini, Cecilia Bartoli è protagonista sia della Cenerentola sia dell’Otello. Nel secondo titolo ella supera sé stessa, e di miglior stoffa sono anche il resto della compagnia e il lavoro registico. Lacunosa risulta invece, in ambo i casi, la direzione di Jean-Christophe Spinosi alla testa dell’Ensemble Matheus.
SALISBURGO, 5 e 9 giugno 2013 – Il compositore Gioachino Rossini, la primadonna Isabella Colbran, i tenori Giovanni David e Andrea Nozzari: sul finire dell’inverno 1822 la compagnia di Domenico Barbaja lasciava il Teatro di S. Carlo di Napoli per puntare verso il Teatro di Porta Carinzia di Vienna. Nei successivi primavera ed estate, tra una recita e l’altra di Zelmira, Elisabetta regina d’Inghilterra e Ricciardo e Zoraide, la capitale dell’impero si scopriva fanaticamente rossiniana. Di quella leggendaria febbre musicale non resta gran traccia nei teatri germanici d’oggi, dove L’italiana in Algeri, Il barbiere di Siviglia, La Cenerentola e il Guillaume Tell sono tutto quel che si può vedere, a dispetto della renaissance che il Cigno di Pesaro ha goduto da mezzo secolo a questa parte. Cecilia Bartoli, rossiniana di razza nonché direttore artistico del Festival di Pentecoste di Salisburgo, ha raddrizzato il colpo dedicando al suo compositore tutelare tutto il cartellone di quest’anno. «L’Ape musicale» ha già reso conto dei tre concerti dell’8 giugno [Salisburgo, Giornata rossiniana, 08/06/2014]: resta da dire dei due titoli operistici presentati in apertura e in chiusura della rassegna, La Cenerentola (nella Haus für Mozart, 5 e7 giugno; altre cinque recite nel prossimo Festival estivo: 21-31 agosto) e Otello (nel Grosses Festspielhaus, 9 giugno; ripresa fedele delle recenti recite al Théâtre des Champs-Élysées di Parigi).[leggi la recensione di Otello]
La montagna tuona e partorisce un topolino. Così accade nella Cenerentola inaugurale, dove lettura teatrale e direzione musicale promettono novità, nascono invece fumosi e sprecano infine una grande occasione. Nell’allestimento con scene di Paolo Fantin, costumi di Agostino Cavalca, luci di Alessandro Carletti e video di Rocafilm, la regìa di Damiano Michieletto dovrebbe tener alta la fama dell’enfant terrible. Al contrario, è la solita trasposizione dai tempi della fiaba alla nostra contemporaneità, condotta con mano pesante, qualche inavvedutezza e qualche contraddizione. Non il palazzo di Don Magnifico, ma un bar squallido; non il palazzo di Don Ramiro, ma lo speculare locale di tendenza. Non un’Angelina principesca anche tra la cenere, ma una donna delle pulizie sciatta e sbrigativa (che però, non ben istruita dal regista, si concede un vezzo antico infilandosi i biglietti nel seno anziché in tasca). Non il riscatto sociale, ma la ricerca del denaro: Don Magnifico, Clorinda e Tisbe non sono plausibili nouveaux riches in smaniosa caccia del titolo, né la famiglia baronale del libretto, bensì gente qualunque dall’insipida caratterizzazione teatrale, pervasa solo da una violenza di modi assai poco fiabesca, rossiniana, operistica. Eppure la fiaba rifiutata rientra dalla finestra in un’ulteriore scelta banale: quella di disinnescare in Alidoro il moderno e pragmatico educatore filosofo, per farne una bizzarra Mary Poppins al maschile, drammaturgicamente astratta e inerte, la quale agisce come una macchietta da un mondo parallelo, ripetendo gli stessi stessissimi gesti che la mima muta faceva nella Gazza ladra pesarese del 2007. Paradosso dello stravolgimento repertoriato.
Jean-Christophe Spinosi, alla testa dell’Ensemble Matheus e dei relativi strumenti originali, monta in cattedra salisburghese e dà prova di dilettantismo rossiniano. Del testo musicale egli coglie solo gli aspetti più esteriori e corrotti, dal forte quanto più forte al veloce quanto più veloce; tempi, colori e fraseggi sono non tanto ricercati nella partitura, ma imposti a forza per sincronizzarsi con la volontà del regista. Fatto non accettabile da parte di un sedicente filologo, i recitativi sono sostenuti dal duo fortepiano-violoncello anziché dal trio fortepiano-violoncello-contrabbasso (con sviluppo per accordi non solo nella tastiera). E le file dell’orchestra sono una collezione di trasandatezza stilistica e insufficienze tecniche: per tacere dei tanti e famosi assoli pasticciati dai legni, dappertutto il suono è nevrotico ed esanime, il timbro incolore e sabbioso, l’intonazione in ostaggio del chiasso. Né si può dare la colpa agli strumenti originali in sé, l’uso dei quali è al contrario benvenuto in Rossini come in tutta la produzione musicale anteriore e posteriore. Per convincersene è bastato ascoltare il concerto del 6 giugno, sempre nell’àmbito del Festival e al Mozarteum, dove Diego Fasolis e i suoi Barocchisti hanno presentato musiche di Rossini e Meyerbeer: una lettura attenta al dettaglio minimo e filologicamente informata, che restituisce musiche spesso celebri (le ouvertures rossiniane) rivelando come non mai prima la loro ascendenza haydniana o mozartiana, e sempre sfavillante, perentoria, innovativa.
Le notizie divengono finalmente ottime passando ai protagonisti dell’opera. Cecilia Bartoli mette a punto un’Angelina differente dalle sue precedenti, anche in vista della regìa di Michieletto: a un carattere sognante, fiabesco e moraleggiante si sostituisce la ragazza di periferia, tendente alla gaffe, ora scioccherella e gigioneggiante, ora rabbiosa e improperiante. Non è questa una conquista interpretativa epocale, ma nella musica e nel Fcanto i conti tornano tutti: agilità vertiginosa ed elettrizzante, recitativi studiati con cura maniacale, estensione tesa senza difficoltà veruna da un registro acuto piccante e cristallino a un registro grave affondato e androgino (con conseguente e ostentata disomogeneità di registri: al primo impatto l’orecchio contemporaneo non lo gradisce, ma è lo stesso fenomeno documentato in contralti storici rossiniani indiscutibili, da Rosmunda Pisaroni a Maria Malibran). Superlativo è sua volta Javier Camarena come Don Ramiro: timbro di maliosa fragranza latina, vocalizzazione facile e sgranata, squillo e risonanza generosissimi, registro acuto di facilità disarmante, comunicativa innata e diretta, fraseggio fantasiosissimo e scortato da tecnica completa anche nelle scelte più impervie.
Nuovo ripiegamento, invece, a proposito del resto della compagnia di canto. Si libera subito il campo dalla coppia delle sorellastre, funzionale all’idea visiva del regista ma impari alle prerogative canore: la minuscola e squittente Lynette Tapia si fa carico di Clorinda; la gigantesca e roca Hilary Summers si fa carico di Tisbe; l’esposta parte acuta dei pezzi d’assieme – spettante a Clorinda: guai a sottovalutarla! – resta terra di nessuno. Il trio dei buffi risulta poi accettabile ma non all’altezza della prestigiosa circostanza. Costretto a una concezione manesca e volgare del personaggio, Enzo Capuano dà luogo a un Don Magnifico caricato alla guisa di un Baron Scarpia, e con il cordiale vocabolario dell’attore comico perde anche la scorrevolezza e l’intelligibilità dei sillabati veloci. Più a suo agio è Nicola Alaimo: ma la parte di Dandini è non solo simpatia di un personaggio, bensì anche richiesta di un considerevole virtuosismo vocale, laddove il baritono siciliano reca in dote acuti fibrosi anziché lucenti, e un certo arruffamento da una quartina di semicrome all’altra. Ugo Guagliardo, infine, si fa apprezzare per dedizione e musicalità; soprattutto in presenza della “grande aria morale” «Là del ciel nell’arcano profondo», e a differenza di altre parti già sostenute nel repertorio settecentesco, quella di Alidoro gli sta tuttavia ancora larga per floridezza di mezzi vocali e insolenza di vocalizzazione.
foto Silvia Lelli