di Stefano Ceccarelli
Carmen, una delle opere più celebri di tutti i tempi. Un’icona tale, che si è concessa – lei, simbolo dell’amore libero, anzi «oiseau rebelle» − a ogni forma d’arte: da una novella è diventata opera e ha poi ispirato arte, cinema, ogni tipo di media – a chi non è capitato di sentire qualcuno con l’habanera come suoneria di cellulare? E il destino può essere veramente beffardo a volte: Georges Bizet non poté godersi il meritato trionfo, essendo morto proprio qualche mese dopo la sfortunata première del suo indiscusso capolavoro. Trionfo che a Roma si è concretizzato in una notevole sfilza di riprese (al Teatro dell’Opera, come alle Terme di Caracalla), fin dal 1885. La più recente ha avuto la sua prima il 18 giugno e terminerà la produzione il 28.
ROMA, 25 giugno 2014 − «Questa musica è malvagia, raffinata, fatalistica: malgrado ciò essa resta popolare – ha la raffinatezza di una razza, non quella di un individuo. È ricca. È precisa. Costruisce, organizza, porta a compimento: con ciò essa è in antitesi alla musica tentacolare, alla “melodia infinita”». Così Nietzsche, il più celebre ammiratore della Carmen (ma non si dimentichi, ad esempio, l’attesa frenetica di Cajkovskij di avere la partitura spedita da Parigi, poco dopo la première): parole che sintetizzano bene il cattivante fascino della partitura, che a stento si lascia comprendere e induce piuttosto alla seduzione. Sulla Carmen sono stati spesi fiumi di parole; ogni nuova messinscena, quindi, rischia di ricreare una tautologia, di affliggere gli spettatori, più o meno colti, con continui déjà-vu.
La corrente produzione, anzi co-produzione (con il Teatro Municipal di Santiago del Cile, dov’è andata in scena nel 2011), all’Opera di Roma inizia con una defezione, proprio nel ruolo della protagonista: Anita Rachvelishvili, già applaudita nel ruolo, defeziona e al suo posto conquista il ruolo di prima donna Clémentine Margaine, che si merita più di un complimento. Non avrà un timbro cristallino, ma che importa? A Carmen è permesso di sporcare un po’. E la Margaine stupisce per la duttilità della sua voce, pastosamente argillosa, e per la sua abilità di modellarla. Ma la sua carta vincente, in questo ruolo, è il fraseggio, che non annoia mai, e i continui giochi in pianissimo nel porgere molte frasi, su cui si stagliano, ove richiesti, ben torniti acuti. Certo, si potrebbe nostalgicamente guardare alla linea di canto della Simionato, all’arabesca sensualità della Berganza, all’ingenuo fascino della Bumbry, alla sanguigna intensità della Verrett, o all’impressionante fascino della Antonacci. Eppure, la Margaine riesce a non risultare mai pesantemente volgare, come nell’habanera («l’amour est un oiseau rebelle», che risulta intensa), aiutandosi anche con un’ottima interpretazione fisica – va alla fontana, si rinfresca un po', poi attacca. Leggermente meno riuscita, specialmente nel finale, la seguidilla («Près des remparts de Séville»), l’aria più sensuale dell’opera, che trasuda aromi orientali in quei semitoni discendenti così insistiti, una sorta di incantesimo ai danni dell’inesperto soldato – com’è stato più volte suggerito. Porta bene a casa anche la canzone della taverna di Lillas Pastia («Les tringles des sistres tintaient») e tutto il II atto; il III scorre bene e la cantante tocca l’apice nel frivolo terzetto con Mercédès e Frasquita; momento topico del IV è il duetto finale («C’est toi. C’est moi!»), reso con molta intensità vocale, anche se la Margaine risulta un tantino imbalsamata in qualche punto: ma commuove morendo. Un buon Don José canta Dmytro Popov, un baritenore sì monocorde − né sempre cristallinamente intonato − ma in grado di stagliare un personaggio vocalmente in carne e ossa. Spagina, infatti, tutta una serie di sentimenti dell’animo umano, dall’ingenua gioia del duetto del I atto con Micaëla, «Parle-moi de ma mère!» (notevole la carezzevole dolcezza con cui i due eseguono la melodia di «ma mère, je la vois!», evocante un tenero ricordo, fino al filato finale ben tenuto da entrambi), percepentesi ancora nel suo ingresso retroscenico con la canzone del Dragone («Halte-là! Qui va là! Dragon d’Alcala»), che riesce a intonare bene pur nella difficoltà di non avere accompagnamento orchestrale, fino a che non comincia a tramutare il suo carattere, infiammando d’ira mentre intona il duetto con Escamillo nel III. Infine, è tramutato, profondamente nel personaggio durante il duetto del IV. Ma l’acme della performance ce la regala, fortunatamente, nella sua celebre aria d’amore, la romanza del fiore («La fleur que tu m’avais jetée»): delicatezza di fraseggio, dolcezze vocali, erotismo non scevro di virilità, specialmente nei filati, che per lui sono un vero scoglio, concorrono a creare la giusta atmosfera. Kyle Ketelsen canta Escamillo, impersonando bene lo spavaldo machismo del personaggio: la sua principale firma, infatti, è negli acuti squillanti e nel maschio fraseggio, pregi che non occultano totalmente diversi suoi sgraziati atteggiamenti vocali. Nel brano apoteosi del suo ruolo, una tipica aria da opéra-comique, «Votre toast, je peux vous le rendre», mostra perfettamente tutti i suoi pregi e, contestualmente, i suoi limiti: gli acuti squillano, bruniti, ma qua e là nel fraseggio e nell’articolazione del testo si perde. Autenticamente preso, invece, canta il duettino del IV «Si tu m’aimes, Carmen». Deliziosa la Micaëla di Eleonora Buratto, cantante dalle doti straordinarie: la tersa cristallinità del timbro e il fraseggio tenue le fanno impersonare perfettamente il ruolo della dame blanche. Canta con trasporto il duetto con José (I atto); ma è nell’aria del III, «Je dis que rien ne m’épouvante», che la Buratto ci dona il fior fiore del suo talento: pathos e terrore si sposano con una certa risolutezza con cui la cantante sceglie di affrontare la parte, con acuti in maschera, pieni. Struggente la resa dell’implorazione a José di ritornare dalla madre in fin di vita («Hélas! José, ta mère se meurt…»). I comprimari non brillano, ma neanche dispiacciono. Hannah Bradbury è una civettuola Frasquita, Theresa Holzhauser una frivola Mercédès: brave nel trio delle carte (III atto), ma meno nel celebre quintetto del II, un pezzo che non proprio è riuscito a svettare: il che è un vero peccato. Marco Nisticò è Le Dancaïre, Pietro Picone Le Remendado: sono molto convincenti nella recitazione, meno – almeno a tratti – nel canto. Diafano il Moralès di Alexey Bogdanchikov; discreto lo Zuniga di Gianfranco Montresor, afflitto da un accetto troppo italiano nella pronuncia francese. Notevole la performance del coro (Roberto Gabbiani), a cominciare da quello maschile in apertura (I atto, «Sur la place»), che riesce a rendere benissimo l’atmosfera di sonnolente noia dei soldati; bravo anche il semicoro femminile nella loro entrata, mentre escono fumando dalla fabbrica di tabacco. Il livello rimane alto per tutta l’opera (coro di apertura del III e quello della festa, del IV). Delizioso il coro di voci bianche nel I atto, che riesce a dare anche una buona recitazione.
Emmanuel Villaume propone una direzione ottima, a tratti eccellente, mercé anche un’orchestra particolarmente in tiro, che ha contribuito a regalare una serata musicalmente notevole. Legge la partitura esaltandone le sonorità elegantemente pastose, congeniali a discoprire la decadente sensualità di questa partitura. Diversi sono i momenti veramente ottimi: i quattro preludi (con una mia predilezione per il I e il III), l’accompagnamento dei brani − habanera e seguidilla su tutti. Peccato per alcuni momenti in cui non tiene tese le redini: l’entrata di Carmen e quella di Escamillo sono, francamente, debolucce. Villaume, dunque, convince: benché sia forse impossibile raggiungere nuovamente l’aurea mediocritas stilistica regalataci da Claudio Abbado, che riuscì realmente a sviscerare ogni atmosfera dalla musica di Bizet, Villaume si distingue per il talento e la raffinatezza con cui porge la partitura. Peccato, veramente, per l’infausta scelta dell’obsoleta versione con i recitativi, che per nulla appartenevano alla fisionomia del genere dell’opéra-comique, al posto dei dialoghi recitati; è pur vero che Bizet doveva apprestarne, egli stesso, una versione viennese in cui comparissero dei recitativi, in ottemperanza alle consuetudini di quel teatro, ma la morte lo colse prima che lo potesse fare: è impossibile sapere, quindi, in che modo avrebbe concretamente agito sulla sua partitura, col risultato che questa versione (preparata dall’amico Guiraud nel 1877) fu quella che, incredibilmente, contribuì all’enorme successo della partitura. I casi del destino, ancora una volta: filologicamente parlando, la partitura della Carmen costituisce un problema quasi irrisolvibile. La regia, abbastanza convincente, è di Emilio Sagi. C’è sempre del movimento, come nella scena iniziale, pullulante di soldati, o nella taverna di Lillas Pastia (II atto): questo è il suo miglior pregio. Il tableau dell’accampamento dei contrabbandieri (III atto) è ben studiato, così come quello creato dalle sigaraie fumanti (I). L’azione viene spostata più avanti nel tempo: siamo nel ‘900, forse i primi anni (chi può dirlo?), come si intuisce facilmente dai costumi di Renata Schussheim, sui quali lesina il più possibile, sicché sono ai limiti dell’accettabile. Ma alcune scelte di Sagi non si comprendono proprio: dipinge una Micaëla troppo sicura del suo corpo, sensuale, che bacia José assai poco castamente; fa incrociare gli sguardi dell’ingenua fanciulla con quelli di Carmen, prima che le due si conoscano effettivamente nel III, ingenerando una fastidiosa anticipazione di un momento che dovrebbe essere topico nella seconda delle due scene; perché Zuniga deve schiaffeggiare così goffamente José, che ha lasciato fuggire Carmen?; ma tutte le batte la scelta (ahimè fin troppo battuta da tanta regia), di non far comparire nessuno che possa scoprire il cadavere di Carmen tra le braccia di José, rendendo assolutamente vane le sue icastiche parole finali («vous puvez m’arrêter…c’est moi qui l’ai tuée»). Intelligentissima, invece, la trovata del bandito travestito nella taverna di Lillas Pastia, una sorta di buttafuori armato di pistola, cui è affidato il compito di sparare a Zuniga in chiusura d’atto (un vero e proprio, inaspettato, coup de théâtre, in deroga al libretto di Meilhac e Halévy); curiosa, e ben riuscita, la scena della sfilata precedente la corrida nel IV atto, in cui un fotografo, come un moderno paparazzo, immortala tutta la teoria dei partecipanti, alcuni dei quali si cimentano in deliziosi sketch coreografici. Molto curate anche le coreografie di danza vera e propria (Naria Castejón), specialmente quelle di flamenco da Lillas Pastia in apertura di II atto.
Le scene sono firmate da Daniel Bianco. Essenziali, anche troppo. Abbastanza gradevole il primo quadro, con una struttura semplice, scarnamente disadorna, in laterizi avana, con tre archi, di cui il centrale aperto (assai gradevole il gioco cromatico atto a ricreare il cielo in lontananza); ai lati si stagliano, a coprire le quinte, la naturale continuazione dell’architettura centrale, con aperture variamente sfruttate. Si tratta – è chiaro – della riproposizione dello scorcio esterno dell’arena da corrida. Le scene, con quest’insistenza di una prospettiva centrale, variata solo in alcuni momenti con l’uso − a mio avviso, non sempre azzeccato − di un pannello in finto legno semovente, ricordano molto quelle preparate da Pietro Faggioni per la celebre edizione di Carmen che inaugurò La Scala nel 1984 (con al podio il compianto Claudio Abbado), soprattutto nella scelta di rappresentare l’esterno della piazza con la rupe digradante che sarà poi quella delle montagne andaluse, alcova di briganti. La taverna del secondo quadro è in bilico tra il trash, volutamente molto ostentato, e lo sciatto: ma ha un suo perché, specialmente nell’intuizione di lasciar scorgere l’esterno; il terzo quadro è il più convincente, con un ottimo gioco di luci e fumo che suggerisce un’atmosfera lugubre; l’ultimo quadro presenta la medesima scenografia del primo, ma ha tutti gli archi aperti, dai quali si intravede il cielo: non si lascia apprezzare la scelta di ritirare il separée pseudo-ligneo per isolare la morte di Carmen, intesa eccessivamente come fatto eminentemente privato, come se si volesse suggerire che a morire sia stata l’ennesima vittima di violenza: Carmen non è una donna qualunque. Non dovrebbe morire in maniera così anonima, Carmen che è l’unica in grado di amare senza pretendere nulla in cambio (perfino Dio – asserisce Nietzsche – pretende la sua ricompensa); farla morire così, le toglie molto della sua reale essenza, quella di oiseau rebelle, ipostasi di ogni eros, cui sono state strappate le ali dall’iracondo José, che dovrà imparare, pur così riottoso, a sottomettersi a quel destino così ben descritto da Petrarca: «Or cognosco io che mia fera ventura / vuol che vivendo et lagrimando impari / come nulla qua giù diletta, et dura» (Francesco Petrarca, Canzoniere CCCXI vv. 12-4).