di Francesco Lora
La regìa di Kušej, precocemente invecchiata, e la direzione di Carignani, equilibrata e nobilmente funzionale, incorniciano l’interessante approccio della primadonna russa al titolo verdiano. Lussuoso il resto della compagnia di canto: Keenlyside, Abdrazakov e Calleja.
MONACO DI BAVIERA, 01/07/2014 – Visto cinque anni fa, fresco di varo, questo Macbeth scandalizzava: Giuseppe Verdi alla Bayerische Staatsoper, con regìa di Martin Kušej, scene di Martin Zehetgruber e costumi Werner Fritz. Nelle recite degli scorsi 27 giugno - 1° luglio, invece, non c’era nemmeno più l’esercito di figuranti orinanti sul palcoscenico. È rimasta la distesa di teschi a perdita d’occhio, e sono rimasti quei coniugi Macbeth un po’ svitati e malvestiti, criminali dichiarati e ritratto dei Ceausescu, presso i quali nessun re Duncano di buon senso cercherebbe ospitalità. Sono i limiti tipici del teatro di regìa alla tedesca: incapacità di vedere i toni di grigio tra il bianco e il nero, fino ad abbattere l’evoluzione psicologica dei personaggi. Come se, per esempio, non potesse essere l’occasione data a scatenare nei Macbeth il delirio d’onnipotenza: inizio e fine si sovrappongono, i cattivi sono i cattivi e devono darlo a vedere in premessa, tutto è scontato dal principio. E gli spazi drammaturgici vuoti – tanti, dopo il sabotaggio a Verdi – sono riempiti con molta futile allusione sessuale: dal primo atto all’ultimo, le masse non fanno che spogliarsi e ammucchiarsi. Si sorride per assuefazione: lo spettacolo scandaloso è già vecchio, non fa più timore, come inibito nella sua precoce demenza senile. Il tempo è galantuomo.
A distanza di tempo, il discorso musicale è invece passato a una maggior esposizione massmediatica. Ora c’è Anna Netrebko che debutta nella parte di Lady Macbeth, con conseguente forsennata caccia al biglietto, e intorno a lei non si bada a scialo chiamando anche Simon Keenlyside come Macbeth, Ildar Abdrazakov come Banco e Joseph Calleja come Macduff. Piacciano o meno, sono nomi che costano e che gratificano la locandina. Piace a modo suo, e per questo piace, la Lady della diva russa. La quale non fa certo il passo più lungo della gamba: le Adine, le Lucie e le Elvire sono già da tempo fuori dalla sua portata, poiché il calibro di soprano lirico-leggero ha via via accumulato peso e sostituito la facilità del registro sopracuto con lo sfarzo degli armonici.
È dunque la logica evoluzione di una voce importante e di un’artista prudente. Per semplicità d’esposizione, proiezione colossale e franchezza timbrica, pare di ascoltare una nuova Mirella Freni, solo più esotica e speziata di timbro e meno spontanea nel rapporto con il testo e con l’uditorio. Psicologia e fraseggio attendono ancora d’essere affinati a ogni pagina, ma questa Lady così giovanile e vellutata, perversamente radiosa, quasi un’altra Salome straussiana, restituisce un personaggio inedito e foriero di riflessioni, benvenuta variazione ai desideri di Verdi (che voleva una voce «aspra, soffocata, cupa»; ma le risorse teatrali non hanno efficacia fissa nel corso della storia).
Meno interessante è Keenlyside, sul quale grava una sostanziale estraneità artistica all’opera italiana. Pare una bestemmia dirlo con tanti suoi estimatori intorno, ma la pronuncia, la dizione e la vivificazione espressiva della parola rimangono carenti, grigiastre, monotone, con una certa tendenza a esplodere in improvvisa protervia dove al contrario bisognerebbe dosare forze e carattere. In termini teatrali, si ha una singolare alternanza tra un personaggio calligrafico e timido e uno volgare e furibondo. In termini musicali, si ha una voce che affronta il cantabile raccogliendo il suono, timbrandolo, legandolo e modulandolo con finezza cameristica, ma che nei passi più drammatici perde il controllo di sé, scolorendosi e ingolandosi proprio laddove vorrebbe sembrare incisiva, tonante e imperiosa.
Del tutto a proprio agio si trova invece Abdrazakov, ugualmente sontuoso a ogni nota per timbro e cavata, e interprete di un Banco pacato, paterno e signorile secondo sempreverde tradizione. Quanto a Calleja, il più famoso vibrato caprino del Gotha tenorile – più una peculiarità che un difetto, una volta fatto il callo uditivo – si accompagna a un volume notevole, a un bello smalto, a un’estensione facile e a un porgere trascinante e affettuoso: ciò che assicura alla sua aria l’applauso il più sincero della serata. Equilibrata e nobilmente funzionale la direzione di Paolo Carignani – che salva la ripresa della cabaletta della Lady ma non i ballabili dell’atto III: l’allestimento scenico, d’altra parte, preesiste e predetermina – alla testa della gagliarda orchestra residente e del relativo e ben più inerte coro.