Cor di padre e cor d'amante

 di Roberta Pedrotti

Finalmente ripreso in epoca moderna lo splendido Bajazet di Francesco Gasparini, opera che condizionò profondamente la genesi di un altro capolavoro: il Tamerlano di Haendel, composto a partire dallo stesso libretto e con il medesimo protagonista, il baritenore Francesco Borosini. Dopo aver visionato la partitura di Gasparini (destinata, oltre che a Borosini, a una compagnia di divi formidabili) Haendel rivide tutto il lavoro già compiuto sul primo atto della sua opera.

BARGA, 11 luglio 2014 - Il paesaggio mozzafiato dalle vette della Garfagnana ha un prezzo. Impone di varcare il Ponte del Diavolo e di inerpicarsi per tornanti, salite, stradine e borghi, ma ne vale la pena, perché il richiamo non è solo quello storico, naturalistico ed enogastronomico, è quello del delizioso teatro dei Differenti, di un festival come Opera Barga gloriosamente attivo dal 1967 (buon frutto del mecenatismo anglosassone nel nostro Paese, perpetuato oggi da Nicholas Hunt, figlio dei fondatori), di un'opera come Il Bajazet (1719) di Francesco Gasparini (1661-1727), che assomma all'interesse scontato di una prima ripresa moderna il gusto intrigante della strepitosa comagnia per cui fu concepita e del rapporto con Haendel, che cinque anni dopo tornerà, e con lo stesso protagonista, al medesimo libretto.

A Reggio Emilia, per Il Bajazet, sfilarono i nomi mitici di Francesco Borosini, eponimo, della musa di Metastasio Marianna Benti Bulgarelli (Asteria), della signora Hasse, Faustina Bordoni, come Irene e del primo musico Antonio Bernacchi quale Tamerlano. Quest'ultimo, divenuto eponimo a Londra, verrà dapprima ipotizzato per il Senesino, che passerà invece a creare un Andronico sensibilmente accresciuto d'importanza, mentre Francesca Cuzzoni sarà un'Asteria più dolce e intimista e ancora Borosini vestirà i panni del sovrano ottomano, noto per essere riuscito a imporre una grande scena di morte, normalmente interdetta alle scene nelle regole settecentesche della bienséance.

Con una tale parata di stelle, e nomi tanto ingombranti per un titolo che, nella centralità di un ruolo definibile come baritenorile e nella sua eclatante trasgressione alle convenzioni, resta difficile non mettere a confronto il trattamento del compositore di Camaiore con quello del Sassone. Già nel libretto si noteranno strutture metricamente più irregolari, retaggio del secolo passato, pesi drammatici, affetti e sfumature psicologiche diversamente distribuiti, nonché la presenza di due personaggi che, soprattutto nello snellimento del libretto necessario a un pubblico non italofono, cadranno inesorabilmente nella stesura haendeliana: il principe greco Clearco, amico di Andronico e devoto a Irene, e Zaida, ancella di Asteria. Confluiranno entrambi variamente nel pure ridimensionato Leone, anche se Zaida persisterà quale presenza muta.

Gasparini scrive da maestro, dipanando arie di formidabile bellezza, su tutte quelle per le due primedonne, esaltate nelle rispettive peculiarità di travolgente tragédienne, la Benti Bulgarelli, e di finissima e avvincente cesellatrice, la Bordoni. L'attenzione al rapporto fra voci è strumenti è evidente, per esempio, nella splendida aria di Tamerlano con due corni concertanti o nell'uso dei timbri pastorali dei legni, tutti elementi che ritroveremo in alcuni passaggi preziosi dell'opera di Haendel, che ebbe ben presente il precedente e non solo, si direbbe, per l'intercessione di Borosini. Osservare Il Bajazet alla luce del Tamerlano è comunque riduttivo, perché se alcuni paralleli strutturali, timbrici e perfino melodici si possono legittimamente delineare, bisogna anche tener presente che Gasparini traccia una strada in quella che è pur sempre una lingua comune operistica in contina evoluzione e circolazione e soprattutto bisogna riconoscere come Il Bajazet sia in assoluto un lavoro di grandissimo valore, di notevole importanza e impegno.

A tutta la compagnia va, dunque, subito reso il merito di essersi prodotta in un autentico tour de force, con due recite consecutive di un'opera lunga e ardua precedute da un intenso periodo di prove nel quale, pure, venivano effettuate le registrazioni per il CD che ne verrà pubblicato.

Ciascuno ha dato il meglio di sé a seconda dei propri mezzi e della propria esperienza e, al di là anche di limiti e virtù individuali, sorge impellente la conferma della riflessione sul carattere puramente convenzionale e strumentale della classificazione delle voci, schema utile e ragionevole per la gestione delle linee di una polifonia o una tipologia vocale legata a un preciso stile e periodo più che per catalogare apparati fonatori umani. Ai tempi di Gasparini non esisteva il baritono e quindi quelli che oggi sarebbero definiti tali da un foniatra si ripartivano fra bassi e tenori, fiduciosi in compositori che cucivano le parti su misura per il singolo artista, o autorizzati dalla prassi a rimaneggiare le stesse parti a proprio uso e consumo, ragionando non per etichette ma per reali e concrete qualità personali. Ora, è impossibile applicare una terminologia che organizza in modo sempre più minuzioso i cantanti in base a tipologie definitesi a partire dal XIX secolo a opere del XVII e del XVIII, quando si ragionava sostanzialmente per primi e secondi uomini, donne e musici, per soprani e contralti, tenori e bassi intesi in maniera assai elastica. 

Così, se siamo abituati a considerare Borosini una sorta di patriarca della stirpe tenorile, bisognerà riconoscere che le parti che sia Gasparini sia Haendel compongono per il suo Bajazet possono stare quasi più agevolmente nelle gole di quelli che oggi definiamo baritoni. Leonardo De Lisi, in una parte quindi assai bassa, deve far fronte ai segni che il tempo ha lasciato sulla sua vocalità non più verde, ma impone la chiarezza di una dizione e di un'articolazione del testo esemplari.

La freschissima Giuseppina Bridelli, definendosi oggi mezzosoprano, non trova alcuna difficoltà nel rendere la tessitura concepita per la primadonna tout court Marianna Benti Bulgarelli e quale Asteria dimostra un'invidiabile proprietà tecnica e musicale nell'approccio a questo repertorio; solo verrebbe da consigliarle proprio una maggior attenzione alla chiarezza della parola cantata (sempre d'aiuto anche per l'emissione) e alla varietà del fraseggio, comunque già istintivamente sbalzato con energia. Viceversa un'altra giovanissima, ma pressoché esordiente, come Ewa Gubanska si presenta e canta come un'educata collegiale inglese. Fresca uscita di concorsi e audizioni (e non ancora di conservatorio), naturale è il turbamento, tanto più se la responsabilità è quella pesantissima di ricreare dopo quasi tre secoli un ruolo composto per un vero e proprio mito del canto quale Faustina Bordoni Hasse. Non resta che farle un caloroso in bocca al lupo perché possa coltivare al meglio il proprio talento, anche se, ovviamente, oggi le arie magnifiche che Gasparini consacrò alla sua straordinaria Irene restano un passo assai impegnativo da compiere con assoluta souplesse più che con diligente dedizione. Le altre donne sono Benedetta Mazzucato, che porge e sbalza bene le difficili arie di Clearco, anche se a ventitré anni, anche nel suo caso, qualche segno di acerbità si fa sentire e la gestione del fiato potrà essere perfezionata con buoni frutti, e Giorgia Cinciripi, voce leggera, garbata e in evoluzione nel ruolo minimo dell'ancella Zaida.

 

Gli altri ruoli sono tutti appannaggio di contralti maschili, ben differenziati per personalità e caratteristiche vocali. Diversamente da quanto avviene in Haendel, il ruolo nettamente più prestigioso è quello di Tamerlano, di cui Filippo Mineccia offre un vivido ritratto, con timbro morbidamente brunito e musicalità sempre finissima al servizio di un personaggio che non possiede l'estroversa, sarcastica isteria che gli presterà Haendel, ma istilla comunque una vena di follia e di sensualità nella sua cupa prevaricazione. Andronico, sacrificatissimo in Gasparini, è viceversa reso nella sua antieroica indecisione dal timbro eburneo di Antonio Giovannini, che sa imporsi per la precisa stilizzazione della coloratura e del fraseggio, degno contraltare ellenico del condottiero tartaro. Terzo fra cotanto senno è Raffaele Pè, da poco affacciatosi alla carriera e certo passibile di ulteriori evoluzioni (specie quanto a controllo e sostegno del fiato), ma già capace di delineare con efficacia il carattere di Leone che, per quanto marginale all'intreccio, finisce, con Clearco, per contendere ad Andronico lo status di secondo o di altro primo uomo.

Chi musicalmente non aiuta, anzi, delude amaramente, è Carlo Ipata (cui si deve la cura della partitura trascritta da Alessio Bacci) a capo dell'orchestra Auser Musici. Gli incidenti, per quanto vistosi oltre misura, dei corni proprio nella magnifica aria concertante di Tamerlano, sono purtroppo evento non raro nell'ambito delle esecuzioni barocche con strumenti originali. Quel che più colpisce però è l'imprecisione diffusa, sia nel rapporto con il palcoscenico, sia fra le diverse sezioni, con, per esempio, un coro finale decisamente confusionario, non l'unico momento, comunque, ad aver lasciato perplessi per squilibri sonori e dinamici.

Per quanto finalizzata anche a un'incisione discografica, la ripresa del Bajazet è la vera e proprio rinascita teatrale di un testo di grande intensità drammaturgica musicale. Paola Rota è alla sua prima regia lirica, e ci pare più preoccupata oggi come oggi a esibire il suo curriculum formativo che non a costruire una vera e propria drammaturgia. È allieva di Ronconi, è stata sua assistente per la (splendida) Turandot torinese del 2006? Eccola incorniciare – letteralmente – gli affetti per svelare l'inganno teatrale in un palcoscenico nudo, con nude macchine. Il suo scenografo (Nicolas Bovey) e il suo costumista (Gianluca Falaschi), entrambi di gran valore, sono collaboratori abituali di Davide Livermore? Ed ecco riemergere, pur con meno mezzi e senza effetti di magia, le atmosfere del Demetrio e Polibio del Rossini Opera Festival 2010. E se lo spazio piuttosto esiguo del Teatro dei Differenti suggerisce caldamente di coinvolgere all'occasione anche palchi e platea nell'azione, ciò dovrebbe essere motivato da una riflessione scenica che non sappia solo di espediente risaputo e necessario. Le distanze ravvicinate e l'ambiente raccolto potrebbero, per contro, valorizzare al massimo un lavoro sull'attore che invece rimane alla superficie, delegato all'esperienza e al talento de singoli. Così s'impone la pregnanza scenica di Filippo Mineccia, che dà precisa sostanza fisica e gestuale alla gagliarda tirannia del capriccioso condottiero tartaro; la disinvoltura sul palcoscenico non manca certo nemmeno a Giuseppina Bridelli, forte, oltre che del talento, di un'esperienza di palcoscenico singolare per la sua età, ma che avrebbe ancora bisogno di essere guidata per sfumare meglio il suo personaggio. È vero che Asteria appare, come abbiamo visto, ben più sanguigna e intraprendente rispetto alla gemella haendeliana, ma l'espressione perennemente corrucciata o sovreccitata avrebbe potuto esser meglio indirizzata e calibrata dalla regista. Discorsi simili si potrebbero avanzare per tutti gli interpreti, impegnati a scoccare ciascuno tutte le frecce al proprio arco, ma ciascuno, ovviamente, con diverse possibilità di fare centro al primo colpo.

Tutti, alla seconda recita, sono salutati con un entusiasmo che premia generosamente, ma non senza merito, i cantanti. È tardi, tardissimo: tre ore di musica distribuite in tre atti, con relativi intervalli, e il sipario si è levato (sulla sinfonia dell'Ambleto, significativo precoce interesse shakespeariano di Gasparini, essendo perduta quella del Bajazet) quasi alle 21:30. Qualcuno, in sala, non ha resistito fino alla fine, ma chi è rimasto – non pochi di certo – può assaporare l'aroma della notte barghigiana, con la Luna perigea velata da una foschia irreale, e sapere di non aver risposto invano al richiamo.