di Francesco Lora
Nel nuovo allestimento con regìa di Warlikowski, i misteri della Frau ohne Schatten di Strauss incontrano Freud. Se la direzione di Weigle è poco più che funzionale, la compagnia di canto è pura eccellenza nel panorama attuale: Botha, Pieczonka, Polaski e Pankratova in testa.
MONACO DI BAVIERA, 03/07/2014 – Santo gabbato già nel corso della festa? Nelle celebrazioni per il centocinquantesimo anno dalla nascita, Richard Strauss non se la sta cavando troppo bene: i principali teatri del mondo gli hanno dedicato poche nuove produzioni (nessuna, vistosamente, a Vienna), e l’allestimento dei titoli più onerosi continua a far paura e a essere dunque ennesimamente rinviato. È quest’ultimo il caso della Frau ohne Schatten (La donna senz’ombra), capolavoro tra i massimi ma a caro prezzo: lunga lista di personaggi e parti protagonistiche con una scrittura musicale pretenziosa, orchestra di dimensioni colossali, profilo teatrale enigmatico e – quasi presago dei ben più potenti mezzi cinematografici – ai limiti dell’irrappresentabilità su un palcoscenico tradizionale. Fortunatamente ci sono le eccezioni: sul finire dello scorso anno, e con due repliche gli scorsi 29 giugno e 3 luglio, l’Opera di Stato Bavarese ha varato un nuovo allestimento dell’opera, con un punto di vista audace ma con esiti oltremodo felici. Intendiamoci: è l’ennesimo prodotto di Regietheater alla tedesca; ma la nuova regìa di Krzysztof Warlikowski, con scene e costumi di Malgorzata Szczesniak, luci di Felice Ross, coreografia di Claude Bardouil e video di Denis Guéguin e Kamil Polak, sa lavorare di fino, giustapponendo concetti là dove altri sostituirebbero o distruggerebbero, e mantenendosi coerente rispetto a un testo carico d’interrogativi.
Il libretto di Hofmannsthal è una fiaba densa di simboli misteriosi, trapassi dal mondo terreno a quello ultraterreno e da quello imperiale a quello miserabile, dialoghi tra uomini e semidei e falchi messaggeri, e con psicologie spiccate, a nervi tesi, in continua evoluzione. Warlikowski stende l’azione sul divanetto dello psicanalista, ostentatamente e genialmente riprodotto sulla copertina del programma di sala: non condividevano forse Strauss-Hofmannsthal e Siegmund Freud uno stesso contesto culturale, soprattutto all’altezza storica della creazione della Frau ohne Schatten? È così creato un mondo onirico, dove non sempre l’idea o l’immagine è debitamente sviluppata, ma dove l’una cede all’altra in modo surreale, illogico, impenetrabile, proprio come accade nei sogni e nell’inconscio; la torre d’avorio dell’imperatrice e la modesta casa del tintore divengono un solo spazio per tutto l’assortimento dei personaggi, arena delle loro esitazioni, dei loro egoismi, dei loro risentimenti e delle loro isterie; l’imperatore siede a tavola con ometti dalla testa di falco, e le proiezioni su ogni lato della scena evocano in immagini gli stessi mondi paralleli evocati in partitura da Strauss. In ultima istanza, lo spettacolo piace, e al giorno d’oggi non si saprebbe trovare una concezione tanto superiore.
Il discorso a proposito della regìa ha il sopravvento, nelle recite estive, su quello a proposito della concertazione: la bacchetta è ora passata da Kirill Petrenko, direttore controverso ma di indubbia personalità, a Sebastian Weigle, direttore di solida esperienza ma di non spiccato genio. Orchestra e Coro dell’Opera di Stato Bavarese, così, dispiegano tutto il loro valore tecnico, nel fantasmagorico insieme come nel valore dei solisti (il violino di Markus Wolf e il violoncello di Jacob Spahn); ma non si può parlare di una concertazione di inaudito virtuosismo, né di una lettura debitamente introspettiva, come invece sarebbe urgente attendersi in questo titolo e in questa occasione. La compagnia di canto, però, è pura eccellenza nel panorama attuale. Nella parte dell’Imperatore, Johan Botha vanta una fragranza timbrica, una cordialità di porgere e una facilità d’emissione oggi non eguagliati da alcun altro tenore attivo in area mitteleuropea; e la sua stessa monotonia espressiva si sposa bene con il carattere di questo personaggio intento perlopiù a sé stesso, fatto autorevole più dal titolo che dall’animo.
I due soprani sono ben assortiti in primo luogo poiché ben differenziati. Come Imperatrice, Adrianne Pieczonka ha nella voce il calore delle femminilità innocente, sale ai sopracuti con tanta incisività quanta sicurezza, mostra senza affettazione tutta la timidezza, l’incredulità e la passione della semidea che anela a un’umanità compiuta. Come Moglie del Tintore, Elena Pankratova domina invece tutti gli estremi della parte, psicologici e vocali, dalla frustrazione all’esaltazione alla smania erotica al pentimento, e dai bruschi salti di registro agli ammollimenti del cantabile. Accanto a quest’ultima, fa pallida figura il Barak di John Lundgren, le nobili intenzioni espressive del quale naufragano spesso in risorse tecniche inadeguate: proprio nei passi più dolenti o animosi, la voce tende ad arretrare in gola e a perdere timbro e risonanza. È una grande gioia, infine, ritrovare Deborah Polaski nella parte della Nutrice: una carriera dedicata alle primedonne wagneriane può aver eroso smalto ed estensione vocale, ma l’attrice è imperativa per accento insinuante, minuzioso e irridente, e per disinibita padronanza della scena; e il canto stesso, in questo ruolo di caratterista, non manca una nota, un colore, un fraseggio calzante. Per Strauss, un gran bel regalo d’anniversario.