di Roberta Pedrotti
Non è certo perfetta la messa in scena del Barbiere di Siviglia andata in scena per il trentacinquesimo Rossini Opera Festival, ma l'entusiasmo trascinante con cui un gruppo di studenti ha trasformato il laboratorio per una forma semiscenica in tempo di crisi in un allestimento vero e proprio, povero di mezzi ma completo nei suoi elementi, coinvolge inevitabilmente la sala. L'edizione critica di Zedda e un cast ben assortito fanno il resto, fra sicurezze del panorama attuale, astri nascenti e un Figaro pressoché esordiente.
PESARO 11 agosto 2014 - Se la precauzione sia stata inutile o meno lo giudichi ognuno liberamente, ma, certo, quel che avviene sulla scena di questo Barbiere di Siviglia può corrispondere alle risorse, ma non all'essenzialità della dichiarata forma semiscenica. Tutto cominciò nel 2006, quando gli allievi del corso di Scenografia dell'Accademia delle Belle Arti di Urbino realizzarono dei video da proiettare in occasione di un'edizione in forma di concerto dell'Adelaide di Borgogna; quattro anni più tardi gli allievi dello stesso corso hanno collaborato con il regista Davide Livermore per il suo magico Demetrio e Polibio e, nel, 2012, per lo sfortunato Signor Bruschino ideato dal team del Teatro Sotterraneo. Sembra rivivere, per quanto in altra forma, l'utopia del Progetto Efesto, lanciato all'inizio di questo secolo dal sovrintendente Gianfranco Mariotti per formare i giovani ai mestieri artigianali del teatro. E, quando in tempi di crisi la necessità si fa virtù, le collaborazioni crescono e si tramutano in un completo nuovo allestimento che, nella forma semiscenica, avrebbe dovuto arricchirsi di elaborazioni scenografiche a cura degli allievi urbinati. L'entusiasmo ha però preso il sopravvento, i ragazzi, è evidente, hanno studiato, sperimentato, inventato, hanno scambiato idee fra loro e con gli interpreti, hanno infine sviluppato una produzione che, nonostante l'estrema economia di mezzi, non riesce a dirsi semplicemente semiscenica, ma si para dietro questa definizione per non alimentare illusioni di opulenza o formato professionismo. Perché, certamente, questo Barbiere resta un saggio, resta l'opera di una creatività ancora grezza che avrebbe potuto essere indirizzata e raffinata in un disegno teatrale più ordinato e pulito (infatti si parla di laboratorio di Scenografia, a dispetto di chi coltiva la confusione, ben distinta dalla Regia). Alcune intuizioni erano eleganti, altre spassose, altre anche ingenue, superflue, gratuite o didascaliche, tuttavia la vulcanica passione che ha animato il lavoro dei ragazzi merita il plauso del pubblico in un momento storico in cui il bisogno si fa virtù e, magari, suggerisce per futuri più rosei nuove strade in cui, per esempio, gli spettacoli dell'Accademia Rossiniana, superando l'eterno ritorno del pur delizioso Viaggio a Reims, possano reinventarsi in collaborazione con accademie di regia, costume e scenografia.
A materializzarsi in questo esperimento scenografico evolutosi in esperimento registico, è ancora una volta la nuova edizione critica a cura di Alberto Zedda, presentata nel 2011 in una splendida performance (leggi la recensione del DVD) concertante sulla carta, semiscenica nel concreto. L'ascolto dell'esito di queste nuove riflessioni filologiche, sorte in un acre ma infine anche fecondo ambito polemico, è sempre di stimolo e continua riscoperta, aguzzando l'orecchio per delineare nella mente il confronto fra ciò che conosciamo quasi come principio atavico e un nuovo Barbiere, strutturalmente identico, ma costituito d'infiniti dettagli agogici, dinamici, armonici, strumentali e testuali differenti. Unica licenza, proprio nella variante più evidente: il personaggio della serva Lisa cui sono affidate alcune battute solitamente attribuite a Berta. Eliminarla oggi significa ribadire da un lato che l'edizione critica è un testo scientifico in cui ogni scelta è argomentata e documentata, ma che lascia all'interprete un margine di libertà nella sua traduzione pratica, ma anche, d'altro canto, ricordare commercialmente che questo Barbiere è eseguibile per mille ottime ragioni senza necessariamente scomodare una cantante in più per poche parole, per quanto, naturalmente, proprio in sede di Festival ameremmo sempre sentirle.
In ogni caso va reso merito al trentaduenne Giacomo Sagripanti di aver analizzato il testo in profondità, di averlo fatto proprio e di averne dato una lettura fluida, chiara, equilibrata, precisa. L'orchestra del Comunale di Bologna ha esibito colore e coesione assai superiori rispetto all'Armida della sera precedente [leggi la recensione], mentre il coro, questa sera il San Carlo di Pesaro preparato da Salvatore Francavilla, ha costituito il punto debole della recita per la sua natura semiprofessionistica, non all'altezza, per intonazione e amalgama, del contesto.
Nulla, o quasi, invece da dire sul cast solido e sicuro, per quanto d'età per lo più ben al di sotto della quarantina, radunato per l'occasione a far da corona all'esordio del giovanissimo Florian Sempey come Figaro. Questo ragazzone venticinquenne spesso allegramente a spasso per le vie di Pesaro, ha voce accattivante, corposa e ben timbrata, oltre a una fresca comunicativa che fa immediatamente presa sul pubblico. Potrà, certo, raffinarsi, sciogliere la pronuncia e movimentare fraseggio e musicalità come è più che naturale ci si possa aspettare per il futuro da un ragazzo così giovane e dotato. Per ora registriamo una promettente, felice intuizione nell'opportunità di questo debutto. Con lui torna l'unico veterano dell'ultima revisione zeddiana: Juan Francisco Gatell, già Almaviva nel 2011, ha timbro giovane e fresco, per quanto non esente da inflessioni adenoidee, e rende con disinvoltura i tratti amorosi del giovane aristocratico, con evidente impegno nella ricerca del giusto accento. L'approccio a “Cessa di più resistere” è sempre comprensibilmente cauto per una voce lirico leggera, tipicamente di grazia, e non di spericolato virtuoso, ma l'esito complessivo della recita elegante e accattivante. Chiara Amarù, da parte sua, esibisce tutto il fascino della sua morbida vocalità, il canto vellutato e spiritoso, l'accento dolce e pungente, la coloratura sempre calibrata nell'espressione per delineare una delle migliori Rosine di oggi.
Don Bartolo era affidato a quell'autentico genio dell'arte scenica che è Paolo Bordogna, più che buffo autentico attore musicista che l'intelligenza libera da ogni etichetta, mentre Don Basilio (per il quale gli studenti urbinati ripetono il cliché ecclesiastico, nemmeno alluso dal libretto, ma certo eloquente per lo stereotipo di certa untuosa e venale ipocrisia clericale) è un Alex Esposito in forma strepitosa. Rispetto allo scorso anno, quando nella frenetica Italiana in Algeri [leggi la recensione] secondo Livermore la sua disponibilità attoriale lo rese un ipercinetico Mustafà, non solo il canto è molto più a fuoco, ma anche la mimica e la recitazione risultano più incisive, meglio evidenziando anche i rari, motivati, eccessi. Se ci fosse bisogno di qualche conferma delle qualità del basso bergamasco e delle sue potenzialità quando contiene il suo istinto istrionico (quale sublime creazione fu il suo sobrio Faraone, diretto da Graham Vick!), eccone una.
Felicia Bongiovanni è, viceversa, una Berta trascurabile, per emissione aperta e vocalità non più fresca. Andrea Vincenzo Bonsignore presta bel timbro a Fiorello e all'Ufficiale, mentre fra i mimi notiamo sia il giornalista televisivo del Tg Regione Marche Alberto Pangrazi, Ambrogio, sia, perfino, il celebre accordatore (fra gli altri, di Krystian Zimerman) Tonino Rappoccio, spiritoso cameo per musicisti fisionomisti.
Alla fine, dopo due atti punteggiati da risate e applausi a scena aperta rivolti non solo ai numeri musicali, ma anche alle trovate teatrali, il successo si accende vivissimo per tutti.
Abbiamo visto un Barbiere memorabile? No, abbiamo piacevolmente partecipato all'entusiasmo di una produzione d'emergenza in tempo di crisi, sorta da spunti fecondi e ancora tutti da esplorare e che, insperabilmente, pare decisa a candidarsi a spettacolo più gradito di questo trentacinquesimo ROF.
foto Amati Bacciardi