di Giulia Vannoni
Ripresa con successo La forza del destino alla Bayerische Staatsoper per il festival operistico estivo della capitale bavarese. Con la regia di Martin Kušej, sono tornati Anja Harteros e Ludovic Tézier, meno efficace il Don Alvaro di Zoran Todorovich, in sostituzione di Jonas Kaufmann. Elegante la direzione di Asher Fisch.
MONACO DI BAVIERA 31 luglio 2014 – Trovare una giustificazione plausibile per l’odio cieco che condurrà Carlo di Vargas all’annientamento finale non è semplice. Nella suggestiva Forza del destino nata nel 2013 alla Bayerische Staatsoper, e riproposta nella serata conclusiva del festival che si tiene a Monaco in luglio, il regista carinziano Martin Kušej fa risalire le ragioni di tanta irragionevolezza al trauma infantile che Carlo ha subito assistendo alla morte del padre, causata accidentalmente da Don Alvaro: lo si vede, bambino, allontanarsi di corsa dalla sala da pranzo e, sempre correndo, riaccostarsi per altre due volte – prima adolescente e poi adulto – alla stessa tavola. L’infanzia è stata troncata bruscamente, il suo mondo si è sgretolato, tutte le sicurezze sono scomparse: nemmeno il passaggio attraverso gli orrori della guerra riuscirà a fargli perdonare l’uomo che ritiene l’assassino del genitore. Le scene di Martin Zehetgruber e i costumi di Heidi Hackl, configurando un ambiente moderno di austera eleganza borghese, trasferiscono all’oggi una vicenda che – seppure ambientata a metà Settecento – non ha riferimenti storici precisi e si limita ad alludere a una generica ispanicità. La preoccupazione maggiore, semmai, diventa quella di venire a capo delle incongruenze drammaturgiche del libretto: e, per fare questo, la regia si concentra soprattutto sul profilo psicologico dei personaggi.
Anja Harteros è stata un’intensa Leonora: senza affidarsi a una sontuosità vocale che non possiede (la penalizza una zona grave un po’ fioca), ha puntato su non comuni capacità espressive, disegnando con accenti accorati una donna piegata dal destino. Ne scaturisce un carattere dolente, che soffre con rassegnata dignità, consapevole che il suo amore per l’irregolare Don Alvaro ha radici anche nel soffocante ambiente familiare. La scelta di affidarsi alla fede (che nello spettacolo assume sfumature di misticismo iniziatico), nel tentativo di trovare serenità, rende più plausibile la sua morte per mano del fratello, trasformandola in vittima sacrificale. Nel ruolo di Don Alvaro, il tenore Zoran Todorovich (in sostituzione del preannunciato Jonas Kaufmann) ha affrontato l’impegnativa scrittura con piglio eroico e voce un po’ disordinata, ma squillante. Nel disegno registico non è un mulatto, ma comunque un diverso: capelli lunghi e abbigliamento trasandato, in netta contrapposizione al conformista Don Carlo. Quest’ultimo era interpretato con signorilità lirica e convincimento drammatico dal baritono Ludovic Tézier: voce morbida e scura, compatta e ben proiettata, capace di comunicare l’intransigenza e l’odio che le convenzioni familiari gli hanno istillato e da cui – a differenza della sorella – non è riuscito a liberarsi. Un buon basso, asciutto e nobile, è Vitalij Kowaljow, qui impegnato nel duplice ruolo del marchese di Calatrava e in quello del Padre guardiano: una scelta non di Verdi, ma già proposta da più di una rilettura drammaturgica. In tale contesto trova, invece, motivazioni realmente convincenti e diventa simbolo della riconciliazione di Leonora con quel passato che l’ha così fortemente condizionata. Renato Girolami era del tutto a suo agio, sanguigno ma senza eccessi caricaturali, nel burbero declamato buffo-baritonale di Melitone. Nadia Krasteva, mezzosoprano dalla voce piuttosto disomogenea, ha puntato soprattutto sull’aspetto fisico per Preziosilla: una presenza straniante, la sua, mentre incita alla guerra, raffigurata anche in questo caso come l’ennesima macelleria da cinegiornale (questo è il punto più scontato dello spettacolo).
Bravissima – tutt’altro che una comprimaria – Heike Grötzinger nei panni della cameriera Curra, figura ben messa a fuoco dalla regia che ne evidenzia il disprezzo nutrito verso i padroni. Penalizzato invece dai colpi di forbice il personaggio di Trabuco, il pur bravo Francesco Petrozzi. Nei paesi tedeschi, pur mantenendo il libretto italiano, si segue spesso – come appunto in questo il caso – la cosiddetta versione Werfel: il grande scrittore, nel 1926 (un anno che, con il senno di poi, segnò l’inizio della Verdi renaissance in Germania), non si limitò alla sola traduzione del testo, ma intervenne sul versante drammaturgico con tagli e un diverso montaggio nella scena dell’accampamento.
Asher Fisch ha concertato in modo elegante e con grande chiarezza d’intenti la Bayerisches Staatsorchester – magnifiche le prime parti, dal violino al clarinetto – e l’ottimo coro, preparato da Sören Echhoff. Il direttore ha ben valorizzato la componente sinfonica (si avvertivano distintamente quegli incisi strumentali che così tanta influenza eserciteranno sugli autori russi) ed è riuscito a far mantenere una rigorosa quadratura ritmica, anche a quei cantanti più inclini a intemperanze musicali.