di Francesco Lora
Una nuova lettura di Dido and Aeneas di Purcell, a MI-TO Settembre Musica, apre vie interpretative inedite al capolavoro e si avvale di voci tutte femminili divise tra più ruoli: quelle, eccezionali, di Anna Caterina Antonacci, Yetzabel Arias Fernandez e Laura Polverelli.
MILANO e TORINO, 8 e 9 settembre 2014 – A un’opera non sempre basta stare nel repertorio comune per essere autenticamente nota al pubblico. Dido and Aeneas (Chelsea 1689), capolavoro teatrale di Henry Purcell, pone e soffre in questo senso problemi ignoti ai più. Tramandata in manoscritti diversi e sempre in forma parziale, è tuttora accessibile in più edizioni, nessuna delle quali rende però fruibile tutto il materiale esistente: con tale premessa, la buona volontà stessa di comprendere organicamente il lavoro, o di ricostruire-sostituire le parti senza dubbio perdute (alcune danze, per esempio), poggia su mezze e insoddisfacenti fondamenta. Ai dubbi sulla consistenza del testo scritto seguono quelli sulla correttezza del testo letto: Dido and Aeneas non è un manifesto puro di stile musicale inglese, se mai si possa sostenere esservene stato uno per il teatro d’opera. Al contrario, è un’eclettica giustapposizione di stilemi. Certa brumosa malinconia nelle linee melodiche, certa peculiarità del contrappunto strumentale, certa polifonia fondata sul canto pieno e fiero del servizio liturgico anglicano dimostrano le radici sull’isola stessa. Ma la forma dell’ouverture e lo stile dei recitativi, la presenza e la natura delle danze, nonché lo sviluppo drammaturgico sono di chiara derivazione francese (parigino-versagliese in particolare). E gli elementi che strutturano le arie, dagli schemi per il canto sostenuto dal basso continuo con ritornello strumentale conclusivo fino al basso ostinato su tetracordo discendente cromatico nel celebre lamento finale, sono di chiara derivazione italiana (lombardo-emiliana in particolare). Non v’è da stupirsi: le prime attestazioni d’esistenza di Dido and Aeneas coincidono con la Gloriosa Rivoluzione di Guglielmo d’Orange e Maria Stuart, sovrani protestanti subentrati allo spodestato Giacomo II, re cattolico, cugino di Luigi XIV di Francia e cognato di Francesco II di Modena; da una parte provengono così le eco di Jean-Baptiste Lully, dall’altra quelle di Giovanni Battista Bassani, entrambe alla moda e ben assimilate nel contesto forbito inglese. Diversi linguaggi e diverse pronunzie, dunque, in un testo e su un testo che andrebbe in ogni caso rimandato a serio esame filologico: consegnarlo all’esecutore ha ancor oggi, per chi la sappia intravedere, l’ombra della sfida scabrosa o della partita persa.
Una lettura indicativa di un nuovo e più maturo approccio al testo ha invece impreziosito il corrente festival MI-TO Settembre Musica. L’esecuzione, in forma di concerto, è stata portata in trionfo da un pubblico numerosissimo: l’8 settembre a Milano nella Basilica di S. Maria delle Grazie (scenograficamente monumentale all’occhio, piacevolmente riverberante all’orecchio) e l’indomani a Torino nel Teatro Carignano (nobile sala rossa e oro, l’acustica della quale è tuttavia troppo secca per esecuzioni musicali in genere). Suonava l’Accademia degli Astrusi, orchestra di strumenti originali, referenziata in ogni suo elemento e a ragione emergente nel contesto italiano e internazionale. Dirigeva Federico Ferri, con il giusto equilibrio di informazione musicologica e fantasia interpretativa: lo dimostra l’ouverture attaccata in stretto tempo francese e poi slanciata in un Presto all’italiana, le danze incitate con vigore ritmico e forza descrittiva, il tocco di colore nel raddoppio degli oboi (altra eredità filofrancese), l’edenico svolgimento dei divertissements e, con mano leggera, l’inclusione della chaconne da The Fairy Queen a far le veci dei passi perduti. Fino ai dettagli minimi, indizio di un’analisi capillare: dalla lunga lista scegliamo il caliginoso ingresso del violone, fin lì usato con parsimonia, nell’ultimo recitativo di Dido, laddove ella sente la vista velarsi di tenebra e l’orchestra stessa si fa così aggravata e nera; e scegliamo gli inediti colpi di tamburo nel canto funebre finale sulla morte della regina, la levità del quale rimane intatta, percossa tuttavia da cupi rintocchi ben noti alla tradizione inglese (il rimbombo dei tamburi aveva accompagnato al patibolo il re Carlo I – la condanna a morte di un unto del Signore turbò a lungo la coscienza del popolo britannico – per tornare come implicita citazione nella marcia funebre del Saul di Handel: la scelta di Ferri evoca in tal modo, già in un aspetto minuto e non in modo pretestuoso, vaste connotazioni storico-culturali).
Una lode a parte merita l’Ars Cantica Choir preparato da Marco Berrini. In una partitura fitta di pagine corali, composte nei più vari registri espressivi, esso somma due pregi che di norma si eludono a vicenda: possiede lo sfarzo timbrico e l’energia tecnica dei cori italiani senza perdere l’esattezza d’intonazione e articolazione tipica dei cori inglesi. A memoria di chi molte volte ha ascoltato Dido and Aeneas, dal vivo e in disco, non si potrebbe trovare un’esibizione più solida e toccante. Così come la compagnia di canto fa strame di molti assortimenti del passato (quelli capitanati dalla Flagstad, dalla Berganza, dalla Norman di turno) e di ogni assortimento del presente, a dispetto del criterio in apparenza audace che l’ha formata. Tutte le nove parti, infatti, sono qui rette da donne: se Dido and Aeneas fu forse concepita per altro e più ricco contesto prima d’essere riallestita nel periferico collegio femminile di Chelsea, è altrettanto verosimile che in quest’ultima sede la formazione dovette avvicinarsi o coincidere con quella presentata a Milano e Torino. Manco a dirlo, l’assegnazione di tre personaggi a ognuna delle tre cantanti diviene una scommessa (vinta) per la specifica caratterizzazione di ciascun ruolo in bocca a una sola interprete.
Il magistero di Anna Caterina Antonacci è al di sopra delle risorse comunicative della critica musicale: enciclopedica Dido, sensuale Prima Strega, spiritoso Marinaio, ella vanta un’autonomia intellettuale oggi senza termini di confronto, dalla quale deriva un modo diverso e migliore di essere cantante e di essere attrice. Non v’è qui l’intralcio di un regista, di un scenografo e di un costumista, e la primadonna può così montare in cattedra con il suo superiore bagaglio retorico: l’abito bianco del soprano diviene un manto regale e il toson d’oro al collo diviene un’insegna; il gesto, scenico e musicale, è ridotto a inflessioni minime di mani e occhi, di sillabe e note, e tuttavia carezza e trafigge navata o sala fino all’ultima fila; dopo il dolente pudore osservato lungo i primi due atti, nei recitativi dell’ultimo esplode un’espressività iperrealistica, al di sopra del canone stilistico per perentorietà onnivalente, e nel lamento conclusivo il cesello retorico ha i suoi approdi estremi in quei «Remember me!» spinti in avanti su fiati infiniti, sonori nel sussurro, come instradati verso il mare aperto dove le navi dell’amante fuggitivo hanno preso il largo. È la scuola di chi sa scandagliare il testo, vedere oltre di esso e restituirlo trasfigurato al proprio pubblico.
Commuove trovare, accanto a tanta Dido, una Belinda non affidata alla consueta soubrette, ma a Yetzabel Arias Fernandez, voce tra le più aromatiche e maliose oggi concesse al repertorio sei-settecentesco, sorta di Montserrat Caballé del barocco, meraviglia di morbido legato, grazia polposa e filati eterei, cui s’aggiunge un accento di radiosa giovinezza e il dotto divertimento d’inserire qui e là le appoggiature doverose ma mai prima ascoltate da altra. Stupisce ritrovarla garbatamente impettita nel breve intervento dello Spirito, mentre l’unione del suo timbro perlaceo, benedizione della natura, con quello filigranato dell’Antonacci, lavoro da orafo, fa della coppia di Streghe un’impensata gioielleria del canto. Il trio è completato da Laura Polverelli nelle restanti parti di Aeneas, della Maga e della Seconda Donna. Sontuosa voce mediosopranile avvezza anche al belcanto italiano ottocentesco, ella fa dell’eroe troiano quasi un Tancredi ante litteram, con una passione d’accenti amorosi e una sollecita flessibilità d’emissione che rientrano appieno nella tradizione italiana se non in quella francese, che si sposano idealmente con lo stile delle compagne d’avventura e che non fanno mai rimpiangere la voce baritonale impiegata d’abitudine. Né al turno della Maga manca la grottesca perfidia, né a quello della Seconda Donna manca la stilizzazione del porgere. Un Dido and Aeneas dal quale ripartire.
foto Gianluca Platania