di Francesco Lora
Roberto Devereux torna allo Staatsoper di Vienna come opera-feticcio di Edita Gruberova: la diva è tuttavia in disarmo, e il fiacco corteggio dei colleghi non vale a vivacizzare uno spettacolo senza bussola.
VIENNA, 13 ottobre 2014 – La ripresa del Roberto Devereux di Gaetano Donizetti allo Staatsoper di Vienna è innanzitutto un inchino alla più longeva delle primedonne lì idolatrate: Edita Gruberova. A sua volta, ella presenta in Elisabetta Tudor la propria parte preferita in assoluto, e diviene il fulcro teatrale di uno spettacolo – regìa del grande Silviu Purcarete, scene e costumi di Helmut Stürmer – ricco di spunti interessanti al suo primo apparire nel 2000, ma ormai tramandato come allestimento di repertorio senza bussola registica.
Nel filologico e sfarzoso abito cinquecentesco eternato dalla ritrattistica, il personaggio di Elisabetta declinato à la Gruberova agisce più variando sul modello interpretativo dato da Bette Davis in The Private Lives of Elizabeth and Essex che seguendo le convenzioni dettate dal melodramma ottocentesco; si trova non tanto una progressione psicologica di affetti e passioni, quanto una mutuazione di straniata nevrastenia: un’Elisabetta disadattata e piena di tic, in manifesto delirio di onnipotenza.
A questa astrazione corrisponde un’organizzazione vocale presumibilmente lontana da quella di una belcantista della prima metà dell’Ottocento, còlta nel pieno delle proprie facoltà come lo fu Giuseppina Ronzi De Begnis alla “prima” del 1837: la Gruberova non solo si giova di attitudini naturali, tecnica di canto e (soprattutto) stile retorico alieni per risorse e obiettivi, ma più che mai oggi deve fare i conti con il disarmo del quale la ingiuriano gli anni. La risonanza si è affiochita, i fiati si sono accorciati, la coloratura si è fatta laboriosa, l’intonazione è affidata più al tentativo che alla certezza di sé; il leggendario registro sopracuto non v’è più: già intorno al Do5 la linea oscilla, sforza e sbanda, mettendo a repentaglio la chiara determinatezza del singolo suono. Rimane ciò in cui la Gruberova non ha avuto un’emula negli ultimi trent’anni, e forse non l’avrà per altri trenta: l’emissione alata sulla quale note e sillabe galleggiano come d’incanto, e sulla quale l’ornamentazione di grazia si scioglie a un solo tempo molle e languorosa, nitida e sgranata.
Nella buca sotto i piedi della primadonna, il direttore utilité Andriy Yurkevych coglie la mercede più della propria fedeltà che della propria competenza, e batte il tempo a un’orchestra assai chiassosa e a un coro assai casuale: da queste parti è credenza che il melodramma italiano lo autorizzi e incoraggi.
Dopo la positiva apparizione come Devereux allo scorso Maggio Musicale Fiorentino, piace ritrovare qui Celso Albelo nella parte eponima; ma spiace ritrovarlo demotivato, con il bel timbro latino buttato alle ortiche di un fraseggio sciatto, dove il canto sillabico non ha energia veruna e dove il cantabile è tanto avaro di legato da far percepire più il rintocco delle note che la direzione della melodia. La stessa monotonia investe Monika Bohinec come Sara, ad onta di una di quelle sontuose voci slave smaltate e omogenee, esibizionisticamente androgine nella discesa alle note gravi. E infelice è la sostituzione di Marco Caria con Paolo Rumetz, un Lord Duca di Nottingham fibroso, forzato e fors’anche angustiato da una parte per lui troppo esigente. Comprimariato funzionale e melomani osannanti all’indirizzo della primadonna.
foto Wiener Staatsoper / Michael Pöh