di Roberta Pedrotti
A. Mattioli Pazzo per l'opera pp. 214 |
Ancora nel secolo scorso – andavo alle scuole medie – ebbi uno scambio epistolare con uno dei critici musicali di punta di uno dei principali quotidiani italiani. Una frase, fra le tante anche sagge e utili, mi rimase impressa: io, notando la sufficienza con cui liquidava un'opera rossiniana (anche nelle sue corrispondenze annuali dal Rof traspariva che l'autore non fosse proprio il suo prediletto), gli chiesi perché fosse andato a vederla se non gli piaceva e lui rispose “mi ci mandano”. L'idea di andare a teatro perché “mi ci mandano” mi fece orrore e pensai che mai avrei voluto fare il suo stesso lavoro: qualunque cosa, ma mai andare a teatro senza piacere. Per fortuna – mia – le cose sono andate diversamente e continuo ad amare il teatro quanto amo il mio lavoro. L'episodio torna alla mente ora leggendo l'ultimo libro di Alberto Mattioli, Pazzo per l'opera, che invece dice esattamente quel che deve essere: all'opera si va e di opera si scrive principalmente perché la si ama, pazzamente. Anche quando va male, perché di andare a teatro val sempre la pena, come ricorda un mio carissimo amico, che di mestiere fa tutt'altro e di fronte alle recite più disastrose (quando magari a me gli occhi si iniettano di sangue) sa sorridere perché comunque era “sempre meglio che stare a casa e vedere Barbara d'Urso”. Ecco, all'amore per l'opera, alla necessità del teatro, a chi li vive e li condivide è dedicato questo libro, che può essere letto in primo luogo come una dichiarazione appassionata, un racconto personale, ricco di ricordi impressioni e aneddoti, di questo sentimento divorante e totalizzante. Non è, infatti, che per noi non esista altro che l'opera, ma l'opera permea comunque in un modo o nell'altro ogni aspetto della nostra vita, fin dal linguaggio: se si parla o si scrive in un misto italiano-librettese non è per vezzo, ma perché i versi dei libretti son pane quotidiano, codice iniziatico, condensato di significati molto più ampi dell'immediato letterale. Fra colleghi di passione prima ancora che di professione, leggendo il libro vien spontaneo annotare i margini a matita, appuntare botta e risposta, come se si stesse conversando con l'autore davanti a un bicchiere di Varnelli (porchettato) al Pozzo di Macerata ormai a notte fonda. Fra gli spettacoli citati si gioca al “celo-manca”, “questo te lo invidio”, “questo io l'ho visto e tu no”, ci sono gli amori comuni (Stiffelio a Parma, La bohème di Bologna...) o divergenze, com'è naturale. C'è l'aneddoto emiliano del Rigoletto cui consigliarono dal loggione di far due viaggi per trasportare una Gilda corpulenta nel sacco che il modenese Mattioli giustamente e filologicamente lascia nel vago della leggenda e che a me, studentessa lombarda a Bologna, hanno venduto con certezza (campanilista?) come avvenuto al Duse con Lina Pagliughi. Se trovate il refusetto, è chiaramente l'umano lapsus di chi è talmente immerso nel discorso e nella materia da accavallare due pensieri o lasciar sfuggire nell'entusiasmo la lingua o la penna. Insomma, c'è il piacere vero di un amore vero in cui è facile riconoscersi e che Mattioli racconta con quella penna fluida (nonostante il dichiarato amore per incisi e parentesi) e inconfondibile che sappiamo, tant'è che lo possiamo senz'altro annoverare fra quelle penne subito riconoscibili cui fa riferimento a proposito di Celletti o Brera. Poi, è ovvio, ogni amore vero tiene soprattutto al bene dell'adorato oggetto, e quindi Mattioli detesta chi l'opera dice di amarla, magari si atteggia a gran censore e custode d'incrollabili certezze e, quantomeno, l'ama male. Quindi, nell'intreccio di ricordi e ritratti, quel che emerge più importante è la considerazione fondamentale sulla natura dell'opera, sul suo ruolo sociale e culturale, sui parametri estetici. Se sul singolo spettacolo possiamo amabilmente scambiare pareri convergenti o contrari è perché alla base c'è sempre la constatazione che non esista il “giusto” di per sé, ma sempre relativizzato all'hic et nunc, all'interpretazione complessiva, al rapporto con il presente. Se l'opera è quella forma d'arte potentissima e irresistibile che è, d'altra parte, è perché è straordinariamente molteplice, sa parlare di noi e del nostro tempo anche a secoli di distanza; se ne siamo irretiti a tal punto, se decidiamo di studiarla e – anche per strade, specializzazioni, percorsi professionali diversi – le dedichiamo le nostre vite è perché constatiamo proprio questo valore, questa stringente contemporaneità. Più ami l'opera, più la conosci, più la conosci più la ami: insomma, entri nel circolo vizioso, che è bellissimo. Infatti, il volume da affettuosa e spiritosa autobiografia d'un amore si anima in ardente pamphlet quando il fatto concreto dà il la alla riflessione sul senso dell'opera oggi e in sempiterna, sul perché val sempre la pena di andare a teatro, perché il teatro è un elemento fondamentale di civiltà, sull'infinito dibattito sulla divulgazione e il ricambio generazionale del pubblico. Al di là del personale e del faceto (ma senza prescinderne, facce della stessa medaglia), ecco che si toccano questioni serissime di politica culturale: l'opera non va fatta "perché si è sempre fatta" (o perché ci siamo noi che la amiamo alla follia), ma perché è importante, è un elemento di dialettica, a teatro ci si confronta e ci si mette in discussione mentre sui social si cerca conferma a quel di cui già si è convinti, l'opera va fatta pensando all'oggi e non ad accontentare solo quella fascia di pubblico che non vuol scuotersi dall'abitudine di quel che hanno visto i nonni e i bisnonni. E a corroborare il ragionamento serio, razionale, politico in senso lato, torna il personale, non per ergersi a pietra del paragone, ma per dire quanto l'opera possa profondamente incidere in una vita, per portare un esempio e una testimonianza. L'opera fa gettar la maschera perfino al cinico e sarcastico Mattioli che rivela più volte sincera commozione e tenerezza (per inciso, la sensazione che descrive suscitata dalla Passione secondo Matteo a Lucerna è la medesima che provai a Pesaro per Mosé in Egitto, spettacolo che immagino Mattioli potrebbe invidiarmi quanto io gli invidio almeno la trasferta a Birmingham), scandisce le nostre esistenze, sia che come l'autore (o l'amico che citavo prima) si registri scrupolosamente il numero delle recite viste, sia che (come nel caso mio, del tutto impermeabile a ogni catalogazione sistematica) le si associno d'istinto a tappe ed eventi fondamentali della vita. In fondo è questo l'opera, un Giano bifronte di sublime, completa, consapevole e deliberata follia organizzata che travolge il suo piccolo mondo fra gli estremi più disparati (anche deteriori) e di valori civili, di sviluppo intellettuale, specchio fedele, universale e profondo dell'umanità. |