di Roberta Pedrotti
G. Ferrara
Zelmira e lo stile compositivo "tedesco" di G. Rossini
200 pagine
versione cartacea in brossura e pdf
Aracne Editrice, collana Immota Armonia, 2013
ISBN 978-88-548-6283-8
Nell'ebrezza della riscoperta del Rossini tragico napoletano alcuni titoli sono emersi sugli altri con forza maggiore, folgorando l'immaginario dei nostri contemporanei più di altri: Ermione e Maometto II, così, hanno travolto Ricciardo e Zoraide e Zelmira.
Tanto poco note ancor oggi, Zelmira e la sua fonte, che in occasione dell'ultima produzione pesarese del 2009 un titolato collega (non un blogger) lodò la scelta del regista Barberio Corsetti di citare Le Sette opere di misericordia del Caravaggio nell'immagine della protagonista che allatta il padre nascosto nel sotterraneo, senza menzionare il riferimento molto più naturale al dramma di Belloy, origine del libretto, in cui Zelmire così nutre il padre celato ai cospiratori. E, forse, proprio la tramontata fortuna del teatro francese a cavallo fra XVIII e XIX secolo ha contribuito all'appannarsi delle sorti dell'ultima opera napoletana di Rossini, così come il libretto avventuroso ed esotico del Ricciardo, troppo prossimo al genere – asceso e caduto in pochi decenni – semiserio. Non poter invocare un'origine, anche lontana, in Tasso, Shakespeare, Racine o Euripide non ha certo giovato alle traversie nubiane di Zoraide, né tantomeno alle peripezie dinastiche del regno di Lesbo.
Un soggetto macchinoso e un'ambientazione classicheggiante ormai datata non dovrebbero però bastare a giustificare la sparizione prima, la scarsa fortuna critica poi, di un'opera matura e meditata come Zelmira, la cui oggettiva qualità di scrittura fu agli esordi salutata con recensioni entusiastiche e le vale oggi la devozione di un manipolo ristretto quanto agguerrito di studiosi e appassionati.
In un panorama bibliografico piuttosto ridotto - in cui spicca comunque lo studio di Saverio Lamacchia del 2002 cui ha fatto seguito il volume dedicato al libretto e alle sue fonti nel 2006 per la Fondazione Rossini - si saluta quindi con piacere l'apporto di un giovane musicologo come Gianfranco Ferrara.
L'appassionato rossiniano, sia o meno già un amante di Zelmira, potrà leggere con facilità il libro, riconoscendo passo per passo l'analisi minuziosa ma agile dell'opera, della sua genesi, delle fonti e delle versioni. Soprattutto ne potrà fare un prezioso volume di consultazione grazie alla quantità di informazioni, tabelle, documenti, riproduzioni di libretti d'epoca e pagine autografe della partitura radunati meritoriamente dall'autore.
Si apprezza lo stile che trasuda passione autentica per l'opera, ma non si perde in voli pindarici o particolari elucubrazioni estetiche e razionalizza piuttosto una panoramica sintetica ed esauriente, asciutta ed essenziale. Ancor più, però, lodiamo l'intento, in quest'ottica, di contestualizzare con dovizia di documenti l'opera nel suo tempo, nella percezione dei suoi contemporanei, di renderla viva seguendo il cammino delle sue principali rappresentazioni e delle versioni che Rossini ne curò. Perché troppo spesso si dimentica che la filologia ci restituisce un testo non cristallizzato in una forma definitiva, ma ne riscopre la storia e con essa un'individualità fatta di varianti, versioni, accidenti che testiniano il suo essere in rapporto continuo e costruttivo con un mondo in evoluzione, con interpreti capaci di suggerire nuove chiavi di lettura, modifiche, prospettive.
Troppo spesso si dimentica che non abbiamo solo i due finali di Tancredi, ma per quasi ogni opera brani alternativi, lezioni differenti che s'influenzano reciprocamente, dialetticamente, talora inaspettatamente. Non si conoscono mai abbastanza i contesti produttivi in cui i grandi si mossero, le opere che affollavano i cartelloni insieme con i capolavori divenuti immortali, ma non si conoscono nemmeno abbastanza i volti che questi stessi capolavori seppero assumere di volta in volta sempre per penna dell'autore. Perfino l'incisione discografica di Opera Rara, al solito così attenta nel raccogliere varianti e versioni alternative, rinuncia a proporre l'aria aggiunta e il finale parigino di Zelmira, registrati in epoca moderna solo in occasione delle recite pesaresi del 2009.
Ben venga, dunque, un volume che, come questo, riesce a fare chiarezza con documentata semplicità e a offrire uno strumento pratico ed esauriente per distinguere fra tutte le varianti, più o meno sostanziali, di Zelmira fra le “prime” curate da Rossini, a Napoli e Vienna (1822), Londra (1824) e Parigi (1826).
La cura editoriale è degna di un serio testo scientifico, anche se punteggiato da comprensibili affermazioni d'entusiasmo per la partitura che accrescono l'empatia con l'autore. Non turba una manciata rada di trascurabilissimi refusi (quale libro può dirsene immune? chi potrebbe scagliare la prima pietra?), mentre, se un appunto si può muovere, è all'espressione di alcune citazioni dalla letteratura critica in cui non è sempre perfettamente chiaro il confine fra le parole di Gossett, per esempio, o di Ferrara.