di Roberta Pedrotti
Giorgio Gatti si racconta
"Mille grazie, miei signori"
114 pagine (28 di illustrazioni)
ISBN 978-88-6540-128-6
Zecchini Editore, 2015
Fa tenerezza, in un certo senso, Giorgio Gatti, che, varcata la soglia dei quarant'anni di onorevole carriera fra ruoli di carattere – buffo tout court o comprimario –, volge uno sguardo all'indietro e un pensiero riconoscente a tutte le persone che in un modo o nell'altro hanno segnato positivamente il suo percorso.
Non ci sentiamo di sposare in toto l'affermazione della premessa (presumibilmente stesa dalla curatrice Emanuela Dolci) secondo cui il libro non si rivolge “soltanto agli addetti ai lavori, ma […] può essere letto anche dai giovani, a dimostrazione che una carriera si costruisce, non soltanto sul talento, che Gatti assolutamente possiede, ma anche attraverso gli incontri, le casualità della vita”. Ora, è senz'altro vero che la fortuna, o se vogliamo il fato, ha la sua bella parte nel determinare il cammino di un artista, ma parlare di talento e casualità senza citare l'importanza di studio e determinazione è inesatto, oltre che diseducativo. Alla Fortuna Machiavelli sposa una Virtù che non è solo fatto di natura, ma anche di volontà.
Considerazione a latere, è ovvio, delle memorie di Gatti, che non sembrano porsi alcun problema pedagogico, nessun obbiettivo didascalico o anche solo di mera narrazione autobiografica, quanto inanellare immagini e sentimenti con uno spirito un po' naïf, di cui si apprezza perlomeno la mancanza di autocelebrazione e autoreferenzialità, la sincerità affettuosa priva di invidie o rimpianti. E, diciamocelo, quando debutti con le grandi arie da baritono romantico, dal Tell ai Puritani a Don Carlo, quando tuo padre si chiama tuo padre si chiama Rigoletto e, prima di morire, ripeteva che potrai dirti un grande cantante quando canterai “l'opera del mio nome”, fa onore a Gatti l'amore sincero dimostrato per il proprio repertorio e per i propri ruoli, anche quelli cosiddetti di fianco, ribadendo – giustamente – nell'importanza di ogni parte nell'economia dell'opera. Cantare "l'opera del nome" di suo padre potrà essere, dunque, a buon titolo un orgoglio anche nel ruolo di Ceprano.
Reso, quindi, il dovuto rispetto al carattere solare e allo spirito riconoscente ed entusiasta di Gatti, bisogna ammettere che il volumetto appare fin troppo personale e privato, più omaggio e strenna per i propri cari – inclusi i celebri citati e i fan – che vera e propria pubblicazione di più ampio respiro e interesse editoriale, quale ci si potrebbe aspettare da un editore raffinato come Zecchini. Si parla di Taddei, è vero, ma giusto per ricordare che erano a cena insieme, durante una produzione, quando giunse la notizia della seconda gravidanza della moglie e il grande Peppino propose un brindisi. Si parla di Domingo, dicendo che era paziente nell'attendere il suo turno nelle prove e che nella recitazione badava a non mettere in difficoltà i colleghi. Si parla di Mehta e di Menotti come dei nipotini, o delle suore dell'oratorio frequentato nell'infanzia, senza raccontare molto più della minima quotidianità, dei piccoli ricordi preziosi per l'uomo Giorgio Gatti, forse non sempre così rilevanti per il lettore. Questo senza voler essere tacciati d'insensibilità: siamo felicissimi della bella famiglia e delle soddisfazioni di Gatti, sorridiamo e ci inteneriamo anche, ma poco ci resta dopo aver, appunto, constatato il suo buon carattere e i suoi lieti incontri umani e artistici. Se non si è parenti o amici, o fedelissimi fan, di Gatti risulta difficile appassionarsi a queste pagine.
Una nota, però, ci è parsa stonata. Capiamo la bonomia del nostro baritono narratore, capiamo un pizzico di cameratismo toscano, capiamo lo spirito di gruppo, ma la paginetta consacrate ad Andrea Bocelli ci vanno proprio di traverso. Non perché, se alla sua compagnia sono legati bei ricordi, Gatti non abbia il diritto di rievocarli fra un pellegrinaggio a S. Giovanni Rotondo e la nascita di un nipotino, ma perché si parla di lui come di un collega alla pari fra Del Monaco Taddei e Domingo, perché il ricordo, pur affettuoso, di un medesimo insegnante non renderà giustizia alla maestro, reso così non solo artefice della quarantennale carriera di Gatti, ma pure corresponsabile della vocalità periclitante del crooner toscano, già in evidente declino anche nel suo repertorio confidenziale.