di Giuseppe Guggino
Gloria Staffieri
L’opera italiana
Dalle origini alle riforme del secolo dei Lumi (1590-1790)
447 pagine
Carocci editore, Roma, 2014
ISBN: 9788843071081
Compilare un compendio di “storia dell’opera” è impresa immane, rischiosa, centrifuga, se non altro per la vastità di filoni che si sarebbe costretti a seguire. Per i tipi di Carocci ci prova e ci riesce mirabilmente la bravissima Gloria Staffieri che, pur essendo studiosa particolarmente apprezzata nell’ambito del grand-opéra, dimostra d’essere in grado di dominare l’intero campo ad ampio spettro, con grande equilibrio e omogeneità di vedute.
Il tomo dato alle stampe copre la ricostruzione (peraltro molto accurata) della gestazione del genere, prima di quell’Orfeo monteverdiano del 1607, per arrestarsi ad un accenno alla trilogia Mozart-Da Ponte.
Tanti sono i pregi del profilo tracciato, intanto l’assenza di pedanterie, il giusto peso tra le varie componenti (libretto, drammaturgia, musica, aspetti organizzativi, aspetti di arte scenica e disposizioni scenografiche), l’approccio unitario che potrebbe essere un rischio ma che qui si rivela quale grande punto di forza grazie alla competenza della studiosa. Trovano giustamente spazio gli episodi che godono di una certa importanza storica alla quale non corrisponde un’altrettanta fortuna esecutiva in tempi moderni, sicché l’approfondimento della drammaturgia di Rospigliosi nelle stagioni barberiniane a Roma o la crucialità di Cavalli o di Pergolesi erodono non senza ragioni la preminenza che ci si aspetterebbe riservata agli Scarlatti e a Vivaldi.
La diversificazione del testo in un percorso fondamentale corredato da inserti in carattere più piccolo (caratterizzati da un maggior livello di approfondimento) configura il lavoro anche come manuale accademico a uso di studenti universitari; tuttavia l’originalità delle prospettive, la ricchissima e aggiornatissima bibliografia (e sitografia) lo rendono adatto ad uno spettro di fruizione piuttosto ampio.
La totale e intenzionale assenza di esempi musicali, preferendo a essi i rimandi a you tube, viceversa è indicativo di un arretramento cognitivo dei tempi moderni (non certo imputabile alla studiosa, che però vi si allinea); e questo costituisce uno dei due limiti della pubblicazione, mentre il secondo sta nella volontà di restringere a “l’opera italiana” il cono di visione in secoli nei quali il concetto di stato nazionale era tutt’altro che consolidato. In fondo a partire dall’800 una storia “italiana” dell’opera può avere senso, così come ce l’avrebbe una “tedesca”, “francese” e una per le opere in lingue slave, ma almeno dalla nascita al ‘700 la restrizione serve soltanto a evitare Haendel e la tregédie lyrique, con lo svantaggio di dover necessariamente accennare alle querelles francesi e alla riforma gluckiana.
Alla cura d’estensione si coniuga altrettanta cura editoriale, alla quale nulla può rimproverarsi se non, forse, l’assenza di un indice delle opere. Ed è la stessa cura che ci si attende di ritrovare nel secondo e ultimo volume in preparazione che da Rossini si arresterà al 1926 (quindi verosimilmente alla prima di Turandot) sperando che sortisca quanto prima, visto l’esito complessivamente felice della prima parte.