di Roberta Pedrotti
Carteggio Verdi-Boito
a cura di Marcello Conati
Parma, Istituto nazionale di studi verdiani, 2014
Formato: cm. 24×17 - LXXXV - 574 pp. - Euro 48,90
ISBN 978-88-85065-60-4
È una storia di più di un secolo fa, ma non è ancora finita. Lo conferma il fatto che, dopo la prima edizione del Carteggio Verdi-Boito del 1978, l'Istituto nazionale di studi verdiani di Parma abbia sentito l'esigenza di una nuova pubblicazione (datata 2014 ma presentata e diffusa ufficialmente lo scorso ottobre) con cura e apparato critico completamente aggiornati e sempre affidati a Marcello Conati, cui si deve, sotto il nome discreto di Preambolo, il prezioso saggio d'apertura del volume dopo un'introduzione di Nicola Sani, presidente dell'Istituto, e le debite esplicazioni circa i criteri editoriali e le fonti.
Una firma, una garanzia, si potrebbe dire, se la formula non nascondesse l'ombra di una passività critica che farebbe torto all'insigne studioso, il quale, invece, tiene sempre desta l'attenzione con la sua prosa e la sua somma competenza. Non ci si assoggetta, semplicemente, al principio d'autorità, bensì ci si trova stimolati da un maestro a ripercorrere la vicenda di due grandi consegnati, più che alla storia, al mito e, così, riscoprirli uomini vivi e veri. Figure tridimensionali e non sagome venerate in cartolina.
È vero, indubitabile che una raccolta come questa sia un oggetto formidabile di studio e consultazione che non solo chiarisce la genesi e con essa molte pieghe interpretative delle creazioni comuni di Verdi e Boito (il raddrizzamento del “tavolino zoppo” Simon Boccanegra, Otello, Falstaff), ma anche fornisce informazioni fondamentali, per esempio, sulle volontà dell'autore in merito ai Quattro pezzi sacri e in generale su mondo teatrale e prassi esecutive del tempo. Tuttavia nel carteggio si trova molto, molto di più. Verdi era abituato a lavorare con librettisti che fossero esecutori delle sue volontà, cui confidava il compito di mettere in versi la drammaturgia che aveva concepito e che, generalmente, potevano al massimo suggerire soluzioni, non stabilirle. Ecco che, finalmente, incontra l'uomo giusto, un intellettuale con cui discutere alla pari, un musicista che ha portato in scena un'opera (lo fu anche Solera, ma senza il talento, la cultura, il genio dell'illustre Scapigliato) e conosce dunque bene le esigenze del teatro, che intuisce le possibilità del verso e del partito musicale che se ne può trarre. Un intellettuale, musicista e poeta che è anche un sincero ammiratore di Verdi e lo è sempre stato: un ammiratore non acritico ma consapevole e attento, a cui sfuggì in una serata di festa quella famigerata Ode saffica frutto di un'improvvisazione entusiastica e un po' ebbra all'indirizzo dell'amico (anche di Verdi, poi, tanto da dirigere la prima di Otello) Franco Faccio, ma nella quale mai si nomina direttamente il Cigno di Busseto o qualche sua opera. Quei versi sull'altare dell'arte “bruttato come un muro di lupanare” costarono, tuttavia, a Boito anni di diffidenza e allusioni da parte di Verdi, che sembrava non perder occasione di rintuzzare i tentativi di conciliazione impretrati da Giulio Ricordi. Le pagine di Conati dispiegano, con il gusto di una dovizia di dettagli mai superflua e sempre puntuale l'evoluzione del rapporto fra Giuseppe e Arrigo mostrando bene che da parte del padovano non vi fu un semplice disprezzo ribelle convertito in ammirazione, semmai onesta ammirazione evolutasi in franca amicizia; da parte del bussetano, poi, non stizza permalosa, ma lo schietto orgoglio di chi non ama inutili smancerie o cerimonie pubbliche e bada al concreto, alla sostanza, e forse aveva inteso nell'atteggiamento degli scapigliati un fraintendimento della sua arte, un'omologazione a schemi nei quali non si riconosceva, con un'irritazione proporzionale all'intelligenza riconosciuta agli interlocutori.
Quando, poi, dall'introduzione passiamo solo alle vive voci del Maestro e del suo Poeta, incorniciate da un formidabile apparato di note, riferimenti, appendici, l'interesse sempre più vivo, all'uopo acceso e soddisfatto dal lavoro di Conati e dei suoi collaboratori, si tinge di crescente, vorace emozione fino a farsi entusismo. Ci sarà bisogno di dire quanto sia illuminante leggere le parole di questi grandi ben contestualizzate? Di quanti stupide strumentalizzazioni si eviterebbero, di quanto più eternamente rivoluzionarie e attuali, nella loro forza interiore mai fine a se stessa, appaiano le loro considerazioni? Vorremmo non ce ne fosse bisogno, ma val sempre la pena di ripeterlo spronando alla lettura non frammentaria e superficiale.
Nella confortante solidità scientifica, nella cura impeccabile della ricerca, nel valore inestimabile del documento traspare il romanzo emozionante di un'amicizia che nasce, cresce e si rinsalda fra un capolavoro e l'altro, fra una riflessione estetica o politica, un momento conviviale (innumerevoli, benchè ben numerati, i biglietti senza data con inviti per una buona zuppa o anche, familiarmente, per “la pappa” insieme) e un dolore condiviso (struggente l'apprensione con cui si rincorrono le notizie sulla malattia e l'agonia di Franco Faccio, non meno toccante il silenzio epistolare che accompagna il mese della morte di Giuseppina Strepponi, alla cui tumulazione milanese Boito accorse direttamente da Parigi presenziando in vece del prostrato vedovo, che aveva seguito il rito religioso a S. Agata). Considerata la trentina d'anni di differenza, si sarebbe tentati di parlare di un affetto filiale, ma la franchezza del rapporto, il rispetto, lo scambio e la fiducia intellettuali vedrebbero riduttivo ricondurre semplicemente quest'amicizia allo stesso sentimento generoso che vide Giuseppe e Giuseppina, persi i rispettivi figli prematuramente, adottare Filomena/Maria, figlia del cugino Carlo Verdi. Quando si parla di Boito, invece, si riconosce una complementarità di caratteri, un'unità d'intenti, una cura reciproca che lasciano sfuggire ogni idea di definizione: uomini e artisti affini fra i quali è scattata la rara alchimia della perfetta creazione comune, tale da cementare un rapporto franco e profondo che va be al di là delle note e dei versi portati insieme sulle scene.
Del pari ineffabile è il piacere di studiare i documenti e insieme sfiorare la vita vera e reale di due artisti che furono per prima cosa due uomini, di seguire passo passo i segreti della creazione lasciando loro il privilegio del mistero su quelle parole che furono dette a Sant'Agata, a Milano o a Genova e che la carta non ha raccolto. Anche per questo esisterà sempre un margine, nella scintilla creativa e nell'amicizia fra gli uomini, che non potremo catturare, che non potremo fissare in maniera univoca: ecco il fascino di una ricerca sempre viva e sempre nuova, di una storia infinita che ci permette di ritrovare, dopo più di sette lustri, Marcello Conati e l'Istituto nazionale di studi verdiani, alle prese con le lettere fra Verdi e Boito. E se, con acribia, riusciamo a scovare un paio di microscopici refusi tipografici (sfidiamo a rintracciarli, tanto più che nessun disturbo recano alla lettura, grazie anche ai possibili riscontri incrociati fra indici impeccabili), questi non saranno difetti, bensì quasi ideali indicazioni: anche il migliore degli studi possibili, quel questo potrebbe definirsi, non si chiude con una parola definitiva, ma apre sempre la strada a nuove riflessioni e a nuove scoperte.
Alla fine della lettura non sentiamo di aver compreso Verdi e Boito, ma di avere a disposizione una chiave in più, e delle più preziose, per continuare a studiarli, leggerli, ascoltarli, pensarli senza mai stancarci. Quest'arguzia sveglia e "crea l'arguzia degli altri".