di Mario Tedeschi Turco
Paolo Isotta
Verdi a Parigi
Marsilio, Venezia 2020,
pp. 668
ISBN-13: 978-8829703388
Preliminare ad ogni discorso critico riguardo questo e altri libri di Paolo Isotta è stabilire in quale ambito della produzione di conoscenza relativa alla musica, lato sensu, esso s’inscriva. L’autore, nella sua Avvertenza, è piuttosto chiaro, al riguardo: «Preciserò che il presente non è un libro di musicologia in senso stretto, pur se parti musicologiche contenga. È un libro di storia della cultura e, persino, di storia della società: Verdi ne fa parte a pari titolo che della storia della musica». Poco prima, per giustificare l’assenza di esempi musicali, annota: «Ho sopperito con il tentativo di trasporre da un linguaggio a un altro e descrivere quella che i Greci, con la loro insostituibile precisione, chiamano ἔκϕρασις, ékphrasis». Siamo dunque in presenza di un tipo di saggistica che pratica, a un di presso, quella che Franco Fortini definiva «critica riproduttiva», vale a dire un tipo di scrittura che tende a replicare talune parti del testo scelto, in una rivisitazione/verbalizzazione che rilevi, della musica, in modo particolare i nuclei tematici, le strutture formali o i registri espressivi salienti. Molto forte in Isotta è altresì una doppia volontà: quella di inserire il discorso sulle opere in un preciso contesto storico e storico-estetico in particolare; quella di gerarchizzare secondo criteri di valore le medesime opere.
Lo scopo del libro è quello di lumeggiare nel dettaglio le Opere di Verdi in francese e quelle di argomento francese, queste ultime sia per ambientazione che per fonte storica o letteraria, in modo da dimostrare l’assunzione, la piena realizzazione e il superamento del modello grand opéra da parte del compositore e drammaturgo. Connessa a questa esigenza di indagine, è altresì quella di dimostrare come lo stile melodico di Verdi si modifichi nel momento in cui si misura con la lingua francese. Allo stesso tempo, rilevato il carattere unitario del corpus verdiano, lo sguardo critico non può che allargarsi comprendendolo tutto o quasi, seppur la trattazione organica sia rivolta, nei vari capitoli, segnatamente a tredici Opere. Attraverso la narrazione delle Opere, infine, lo scopo di Isotta è quello di fornire la ricostruzione dell’estetica verdiana, distillandola e dal commento ai drammi, e dai contenuti dell’epistolario. Si tratta insomma di un progetto assai ambizioso, del resto non taciuto da Isotta nell’Avvertenza: quella di fornire un ritratto a tutto tondo di Verdi, compito da assumere periodicamente, ad ogni nuova generazione di studiosi, benché il lavoro per esempio di Julian Budden sia «insostituibile», e nemmeno superabile.
Isotta mostra di maneggiare con sicurezza una parte della letteratura secondaria, soprattutto i lavori del predetto Budden (59 citazioni), Marcello Conati (31 citazioni), David Rosen ed Emilio Sala (12 citazioni ciascuno). C’è da dire tuttavia che, volendo proporre un’immagine nuova di Verdi, la rassegna avrebbe dovuto essere più ampia: ne fa fede ad esempio Ruben Vernazza, nel suo recente Verdi e il Théâtre Italien di Parigi (1845-1856), De Sono/Libreria Musicale Italiana, Lucca 2019, che su tema analogo mostra ben altra capacità di vaglio bibliografico e conseguente assunzione delle informazioni. Isotta non pare molto aggiornato, dunque, specie per ciò che riguarda i contributi pubblicati in riviste scientifiche, né la ricerca d’archivio risulta di prima mano, dal momento che anche quando ostende documenti d’epoca, lo fa riportandoli da studi altrui (regolarmente citati e lodati, ben inteso). Non è da credersi peraltro che questo sia l’obiettivo primo del nostro autore, in cui le ragioni della bella scrittura e della sintesi di giudizio idiosincratico da sempre la fanno da padrone. Una preoccupazione non si sa quanto commendevole, per esempio, è quella di ricordare più volte «l’italianità» del teatro musicale europeo, e di indicarne sempre precedenti e antesignani, nei vari generi, in questa o quella esperienza napoletana, o veneziana, o romana, o fiorentina: di qui l’esigenza di reiterare segnalazioni della fiorentinità di Lully, del dominio assoluto della scuola napoletana settecentesca, della qualità italiana dell’operismo di Gluck, della perfezione delle Danaïdes di Salieri in quanto Tragédie Lyrique, a tracciare una linea di continuità all’interno della cultura di Francia che culmina con i capolavori di Cherubini, Spontini, Rossini, Donizetti e appunto Verdi. Se la civiltà è la somma totale di differenti culture animate da un comune numeratore spirituale (così Iosif Brodskij), l’ovvio dettaglio storico di nascite e appartenenze non ci appare né fondamentale né espediente all’analisi musicale o alla storia culturale, e al contrario pare equivoco se non tendenzioso rimarcarlo di continuo: formazioni musicali d’avanguardia, tipiche degli antichi stati italiani, hanno incontrato una dimensione letteraria, filosofica, teatrale e scenica, in Francia, del tutto peculiare e idiomatica, e ben più avanzata dell’italiana, ed è da questa feconda unione che sono nate esperienze artistiche di massimo rilievo. Ed è quanto basta onde non cadere in nazionalismi arretrati. Del resto, l’ossessione del primato, anzi della «primazia» come preferisce chiamarla Isotta, costruisce buona parte del suo discorso critico, e non da ora: il canone con le sue gerarchie di forza, di intensità di presenza, di perizia tecnica, di energia espressiva è sempre al centro del suo interesse culturale, così che un intero capitolo è dedicato a un confronto tra Meyerbeer e Verdi nel genere del grand opéra, per concludere che Verdi è superiore per ispirazione sintetica e unitaria nonché per omogeneità stilistica, a fronte di un Meyerbeer certo grande, ma più d’una volta dotto ma non ispirato, più d’effetto che di reale forza drammatica. Nel mentre che il francese resta un superbo teatrante romantico, insomma, a Verdi spetta il riconoscimento della statura d’un Classico virgiliano per il «culto della rifinitura inteso come valore etico, oltre che artistico; per il pessimismo e l’ampiezza universale di vedute; per il senso religioso precristiano della divinità della Natura».
Di interesse sarebbe stato vedere esplicitato, come da Avvertenza, in che modo la lingua francese incida sullo stile vocale di Verdi, modificandolo e definendo «la sua giustezza declamatoria […] senza rivali almeno […] dopo Rossini e fino a Berlioz» (p. 190). Ma d’analisi o commento di tale poetica non c’è traccia nelle 668 pagine (indice incluso), solo rilievi condivisibili ma generici: riguardo alla Jérusalem, a p. 201, leggiamo«La modulazione a Sol maggiore su “Dans mon coeur la douce image” e il ductus melodico s’attagliano particolarmente al francese»; nella sezione dedicata a Les vêpres siciliennes (p. 395) «Il Recitativo iniziale del Viceré è addirittura un modello di declamazione drammatica: se nei pezzi chiusi Verdi commette talora […] qualche errore prosodico, in questo Recitativo mostra quel che nessun compositore – salvo Berlioz, ma quello dei Troyens – sarebbe capace di fare scrivendo musica in lingua gallica»; infine sul Don Carlos (p. 603), commentando la maledizione di Eboli verso l’Infante: «In Mi minore parte da una terzina in anacrusi e con accenti scolpitissimi pronuncia: “Malheur sur toi, fils adultère,ǀ Mon coeur vengeur va retentir”». Non ci sembra quindi che la promessa sia stata mantenuta, e un’analisi comparata francese/italiano sul testo musicale, per esempio, manca del tutto.
Veniamo al dispositivo generale dell’ékphrasis: di ciascun titolo in esame, Isotta segue passo passo lo svolgimento drammatico, descrivendone i punti salienti, dal punto di vista musicale, ponendo l’accento in particolare sulle relazioni armoniche all’interno dei singoli numeri e nel complesso dell’Opera. Ampie sono in premessa le contestualizzazioni ora biografiche, con gran copia di citazioni dall’epistolario, ora storiche e letterarie, con riflessioni puntuali soprattutto sulle fonti dei libretti. Al riguardo dei quali non ci pare però che Isotta sia particolarmente aggiornato nell’ambito della librettologia, pur se è da dire che la vastità dell’erudizione si avverte nelle sezioni del libro dedicate ai modelli Schiller, Hugo, Shakespeare, Gutiérrez. L’analiticità del commento talora risulta ridondante, e l’assenza degli esempi musicali ne rende la lettura non agevolissima. E come non ci sono certo errori, nei dettagli del commento, è da dire che questi in massima parte non sono né rivelatori, né originali, derivando o da una mera descrizione, o dalle analisi di Budden, Della Seta e altri, così come chiarito nelle note.
Lettura spesso non agevole, dicevamo: ciò accade nonostante l’autentico virtuosismo linguistico, e in ispecie sintattico, che Isotta mette in testo: dai costrutti fortemente ipotattici ma a cola simmetrici, alla Livio, si passa a scorci nominali ultrasintetici, fulminanti, in cui l’autore, che è latinista peritissimo, replica certe soluzioni tacitiane. Il Manzoni del Romanzo si insinua spesso, con lo stilema reiterato del costrutto con «non che» ad anticipare la correlativa coordinata, in luogo del moderno nesso «non solo»; o ancora nell’ampiezza del periodare e in senso lato nella compresenza, ai fini della chiarezza, di lessico specialistico, voci arcaiche e lemmi invece di registro quotidiano, in una notevole ‘polifonia’ che, è da dire, risulta sempre limpida, chiara, perspicua per i suoi fini. Memore per certo della lezione stilistica e retorica crociana, per Isotta la musicologia modernamente intesa, anche come metodo di esposizione, non risulta cogente, tutt’altro, e per questo i costrutti arcaizzanti e il lessico desueto funzionano anche quali indicatori d’opposizione e indipendenza, a rivendicare uno statuto semi-narrativo cui si devono anche numerose digressioni, sezioni parentetiche, sconfinamenti polemici. L’autore sembra quindi rivendicare, da essa musicologia, totale libertà anche quando si trovi a lodarne grandemente illustri esponenti, che vengono indicati con l’apposizione «scrittore»: così per Fabrizio Della Seta, per esempio (con la “s” maiuscola), o in maniera ancora più significativa, per Michel Orcel, «uno scrittore [con la minuscola, NdR] che inserisce non solo la psicoanalisi ma il mito classico fra le chiavi interpretative di Verdi: il che lo fa anticonformista e a me assai vicino».
E concludiamo, dunque, proprio con questo «anticonformismo»: rimane per noi un mistero fitto la valutazione degli scritti di Paolo Isotta. Come si è sommariamente tentato di illustrare, in questo Verdi a Parigi informazioni nuove, o un metodo nuovo di ricerca, non paiono esserci. Il punto di vista ‘francese’ sull’opera, la poetica e l’estetica di Verdi è solo uno strumento per l’articolazione di un discorso globale, i cui nessi organici con la musica e il teatro d’oltralpe si fanno sempre più deboli mano a mano che la trattazione procede. La sintesi di storia generale del teatro musicale in Francia posta in apertura soffre di semplificazioni, forse necessarie ma non sempre accettabili, ma soprattutto d’una nutrita serie di giudizi di valore non argomentati che accettabili non sono poiché frutto di semplice gusto personale, spesso anche di tono tranchant (difficile mandar giù la liquidazione di Gounod come «Meyerbeer di serie c»), la qual cosa si estende largamente in tutte le altre sezioni del libro. I commenti ‘ecfrastici’, se possono essere considerati brillanti per scrittura, non aggiungono nulla alla letteratura scientifica e possono risultare ostici all’uomo di cultura non specialista, cosa per cui non si capisce bene a quale tipo di lettore l’autore intenda rivolgersi. Ma nuove ben vero sono certe intuizioni, fulminanti: la «fantasia» sul finale di Traviata come sogno, per esempio (peraltro in buona parte debitrice, notiamo, dell’idea di Jean-Pierre Ponnelle per il finale del Tristan); gli Anabattisti del Prophète paragonati al Reverendo di Verga; il parallelo Verdi/Balzac sulla necessaria rapidità di scrittura; oppure la metafora dell’«occhio di Dio» a legare Flaubert a Verdi secondo obiettività e impersonalità; o ancora l’analogia, sotto il segno dello sguardo sulla banalità triviale del mondo, tra uno scritto di Berlioz in cui deplora l’organetto che scempia il Miserere del Trovatore e il finale del Gattopardo, in cui il principe di Salina muore udendo pure un organetto che intona Tu che a Dio spiegasti l’ali dalla Lucia di Lammermoor. Ecco, questi sono tocchi notevoli, che denotano non solo vastità di cultura ma speciale sensibilità poetica, lampi d’intuizione che costituiscono la materia principale dei migliori pezzi giornalistici di Isotta e, in prospettiva, potrebbero costruire la base per studi comparatistici specifici, di ampio respiro, come per esempio lo stesso Isotta ha prodotto nel recente La dotta lira, dedicato a Ovidio nella storia della musica. Sono infine gesti critico-culturali, se non addirittura creativi, sovranamente liberi, da lodare per indipendenza, autonomia, capacità di unificazione del senso e della conoscenza, che funzionerebbero benissimo nella misura dell’elzeviro o del saggio breve. Ma non siamo sicuri che bastino a giustificare una nuova estesa monografia su Giuseppe Verdi.