di Roberta Pedrotti
L. van Beethoven
Leonore (versione 1805)
Petersen, Schmitt, Ivashchenko, Johannsen, Weisser, Nazmi, Chum
direttore René Jacobs
Zurcher Sing-Akademie
Freiburger Barockorchester
registrazione effettuata a Parigi il 7 novembre 2017
2CD Harmonia Mundi, HMM902414.15
Osservare con il senno di poi non è sempre un vantaggio, anzi: si rischia di adottare una prospettiva teleologica per cui l'ultima versione sembra sempre la migliore e non semplicemente differente, mentre la suggestione delle anticipazioni future prevale sul retaggio del passato. Anche, forse ancor più, di fronte all'opera di un genio indiscusso un debutto tribolato alimenta leggende, le rielaborazioni finiscono per conferire all'esito ultimo un'ipotetica palma di superiorità: Leonore resterebbe la curiosità, il cartone preparatorio di Fidelio, il capolavoro; non del tutto ignota, talora ripresa sulle scene (ricordiamo l'edizione, seppur non fortunatissima, diretta da Daniele Gatti a Bologna nel 2004), troppo facilmente viziata, nell'interpretazione e nella recezione, dalla consapevolezza di quello che sarà.
Poi arriva René Jacobs, che si innamora della Leonore del 1805 definendola addirittura superiore a Fidelio e, al di là delle personali valutazioni estetiche, pone all'attenzione due questioni inconfutabili: nel 1805 Beethoven ha già scritto l'Eroica, non è un giovane alle prime armi; la partitura, con le sue due ore e venti di durata, non è certo sterminata per gli standard dell'epoca e basta leggerla per rendersi conto che le lungaggini lamentate alla prima da un pubblico non madrelingua fossero da attribuire più alla comprensione del testo e alla qualità dell'esecuzione. Avere un concertatore che crede così fermamente nell'opera è già il miglior punto di partenza, in più l'approccio, se vogliamo, retrospettivo di Jacobs si adatta perfettamente alle caratteristiche di Leonore, al suo spirito di Singspiel, al suo legame con l'ultimo Mozart e l'opera francese del tardo '700. Una scelta di campo che rinnova quella attuata per Don Giovanni e che in quel caso risultava storicamente inappuntabile (ovvio che abbia più senso riferire un testo a ciò che lo precede), concettualmente discutibile (siamo certi che ricondurre il dramma giocoso dapontiano a una tradizione schiettamente buffa non sia riduttivo?), esteticamente coerente, riuscita e affascinante (la mobilità del fraseggio e la varietà dei colori parla da sé). Qui, però, non emergono perplessità di sorta. Rafforzare il legame con il Mozart più maturo, con la tragédie lyrique cherubiniana e l'opéra comique rivoluzionaria significa prendere atto dell'humus in cui prende forma lo stile eroico beethoveniano, come appare evidente anche all'ascolto della fonte ispiratrice: Léonore ou l'amour conjugal di Pierre Gaveaux su libretto di Jean Nicolas Bouilly. Significa anche dare il giusto respiro alle tre sequenze in cui è ripartito il testo: un primo atto da commedia borghese, con il buon Rocco a sovrintendere alle vicende sentimentali fra Marzelline, lo spasimante Jaquino, il bramato Fidelio/Leonore; un secondo atto segnato dall'ingresso di Pizarro che mette in moto la vicenda, non senza concedere ancora spazio al rapporto fra Marzelline e Fidelio/Leonore, cui è riservato uno splendido duettino con violino e violoncello concertanti; un terzo atto che introduce Florestan, precipita negli inferi del carcere e risorge alla luce nella miglior tradizione della pièce à sauvetage. Il coro dei prigionieri che in Fidelio fa da cesura fra i due atti si trova, dunque in posizione meno evidente, smussando il respiro ideale in favore di un'azione logicamente scandita dall'apparizione progressiva dell'eroina/salvatrice, dell'antagonista, dell'eroe/vittima. Da notare, tuttavia, che quando Beethoven trarrà Fidelio da Leonore, tornerà a rispettare proprio la divisione della Léonore di Bouilly e Gaveaux, che chiudono il primo dei due atti con un coro omologo.
Di certo, al di là delle dichiarazioni storiche e programmatiche, questa Leonore colpisce nel segno, si gusta per la vivida teatralità che va di pari passo con una cura sapida del fraseggio, dei colori e delle dinamiche, mantenendo sempre la giusta misura fra mezzo carattere e dramma, fra luce e tenebre, con un contrasto felicissimo fra l'idillio iniziale e il quadro del carcere. Insomma, ci fa godere appieno di Leonore e ci ricorda che se Beethoven era un genio lo era anche in tutto quel che ha scritto per il teatro, seppure in quantità limitata e con avverse fortune.
La Freuburger Barockorchester è tanto ricca di colori, mordente nell'articolazione e presente nel timbro quanto felicemente complice delle voci, tant'è che Marlis Petersen risolve senza problemi la scrittura ancor più diabolica – impossibile davvero in una lettura turgidamente romantica – dell'Aria di Leonore. Cesella peraltro con finezza mozartiana gli assiemi e il duettino con Marzelline (Robin Johannsen, davvero brava), non manca di nobile slancio nel terzo atto, più inquieto anche nella “Namenlose Freunde” intonata, quando ancora la salvezza è tutt'altro che certa, con il Florestan di Maximilian Schmitt. Questi supera parimenti gli scogli di una parte che deve guardare più a Tamino che a Siegfried, come si evince chiaramente dal carattere del terzo atto, dall'affinità, per esempio, fra il duetto mozartiano degli armigeri e quello di Leonore e Rocco, fra i due trionfi della luce e della giustizia officiati da un basso, Don Fernando o Sarastro che sia. In questo contesto, si apprezza l'eloquenza ben differenziata delle voci gravi: Dimitry Ivashechenko come Rocco, Johannes Weisser Pizarro, Tareq Nazmi Don Fernando. Con loro va ricordato anche l'apporto di Johannes Chum quale Jaquino e del coro Zurcher Sing-Akademie.
Un cofanetto-libro ben curato con illustrazioni, il testo completo (importante anche perché i parlati sono ritoccati e ogni intervento è indicato con precisione), gli approfondimenti di Jacobs e Ksenija Zadravec suggella l'importanza di questa pubblicazione, già pluripremiata fra quante stanno celebrando il duecentocinquantesimo beethoveniano.