di Roberta Pedrotti
R. Hahn
L'île du rêve
Dubois, Guilmette, Gombert, Morel, Sargsyan, Dolié
Hervé Nïquel, direttore
Münchner Rundfunksorchester
Choeur du Concert Spirituel
registrazione effettuata a Monaco di Baviera il 24 e il 26 gennaio 2020
127 pagine illustrate: libretto G. Hartmann e A. Alexandre; testi di Giroud, Parsons, Pougin, Hahn e Risler
Palazzetto Bru Zane/ BR Klassik 2020 - Prima registrazione assoluta
Un ufficiale occidentale ha una fugace relazione con una giovanissima bellezza esotica che lascia per tornare in patria. Ci ricorda qualcosa? Aggiungiamo che, dopo la partenza del bellimbusto l'opera finisce, ma la fonte letteraria ci dice che la ragazza farà una brutta fine (e già avevamo visto in scena un'altra sedotta e abbandonata ormai fuori di senno). L'île du rêve di Reynaldo Hahn è sorella della Lakmé di Delibes, con cui condivide l'ispirazione in Le mariage de Loti, romanzo d'intenzione sfacciatamente autobiografica, dato che l'autore Julien Viaud, specializzato in avventure esotiche, era noto proprio con lo pseudonimo di Pierre Loti. E a Pierre Loti si deve pure Madame Chrisanthème, messa in musica da Messager e da cui discende, tramite Long e Belasco, Madama Butterfly. Siamo, insomma, nel pieno della fascinazione coloniale per terre lontane che promettono amori liberi fra aromi inebrianti, immersi nelle tele di Gauguin e negli idilli degli ammutinati del Bounty e dei loro interpreti cinematografici – Marlon Brado docet.
Nostalgie dell'Eden, languori estetizzanti e poeticissimi colori per dipingere quelli che, in fondo, erano poi episodi di turismo sessuale che solo Puccini sembra smascherare mostrando il punto di vista della vittima.
Eppure, se in una buona cultura generale si dà per scontata la conoscenza di Gauguin (fatte salve recenti aberrazioni riformatrici, parte dei programmi scolastici), non lo è altrettanto la consapevolezza non solo di Hahn, Messager e Delibes, ma perfino di Puccini. E lo stesso Hahn rientrerà semmai nell'aneddotica letteraria come grande amore di Proust e ispiratore della Recherche, mentre della sua propria produzione artistica ci si limiterà all'Heure exquise e un'altra sparuta manciata di mélodie. Male, molto male, anche perché Reynaldo Hahn oltre a essere un compositore di prim'ordine è anche una figura storicamente significativa: nato a Caracas da genitori ebrei tedeschi, trasferitosi a Parigi in tenerissima età e cresciuto più francese dei francesi, perfetto testimonial dello ius culturae, omosessuale, dreyfusard, talento precocissimo impossibilitato per i suoi natali a partecipare al Prix de Rome ma sostenuto dal mentore Jules Massenet al punto da guadagnarsi invidie come straniero raccomandato. È quel che avviene proprio con il debutto dell'Île du rêve, l'opera scritta a diciassette anni come “compito delle vacanze” per Massenet e che il maestro riesce a far eseguire (André Messager sul podio, si parva licet) all'Opéra-Comique nel marzo del 1898, quando l'autore di anni non ne ha ancora ventiquattro: colleghi compositori intingono la penna nel vetriolo vestendo i panni di critici, o indirizzando giornalisti e correnti di pensiero. Pochi difendono il giovanissimo “straniero” pupillo del potente maestro, ma fra i nemici ben pochi sanno argomentare con una qualche sostanza musicale. D'altra parte, basta ascoltare L'île du rêve per rendersi conto della soprendente maturità e dell'ispirazione di Hahn, della sua capacità di creare un'atmosfera sospesa in tre atti fulminei – l'intera partitura dura a malapena un'ora – che sono tre episodi senza reale sviluppo drammatico. Georges/Loti incontra le fanciulle polinesiane e si innamora di Mahénu, incontra la donna amata dal fratello e ormai impazzita, Téria, comunicandole la morte dell'uomo, è tentato di condurre con sé Mahénu in Francia, ma la principessa Oréna indica nella separazione degli amanti la soluzione migliore. Praticamente non succede nient'altro, se si eccettuano un paio di interventi di un caricaturale cinese (un tenore buffo che sembra un incrocio fra Yamadori, Yakusidé e Goro) e un pio baritono padre di Mahénu. Forse non serve chiamare in causa il venturo, ma composto proprio negli stessi anni, Pélleas et Mélisande per dire che, nell'estetica del tempo, anche l'assenza di un'azione vera e propria può essere teatro. Tuttavia Debussy non è solo un esempio notevole di un clima condiviso: la strumentazione preziosa e l'accattivante fascino melodico che Hahn ha affinato con Massenet fluiscono senza soluzione di continuità, senza contorni definiti, ma con un inafferrabile moto continuo tutto basato sull'articolazione della parola, in un'apparente semplicità del fonema che si fa musica e della musica che si fa teatro senza bisogno di azione tradizionalmente intesa. Il titolo dice già tutto, è un'apparizione onirica in cui non importa tanto rappresentare un fatto, una vicenda, quanto evocare un'idea, quella appunto che si respira nei dipinti di Gauguin: il viaggio come fuga e come ricerca di un Eden perduto, l'esotismo come seduzione verso un altro da sé libero da ogni condizionamento sociale, un tardo romanticismo inappagato che trova sfogo nell'avventura coloniale e la giustifica. Tant'è che, pur consapevoli del contesto, non possiamo non subire il fascino del sogno dipinto da un outsider, un artista venuto da lontano, rigettato dalla borghesia della Troisième Republique per i natali, le origini, la sessualità, eppure una delle voci più emblematiche della Francia a cavallo fra due secoli.
Il cofanetto con cui il Palazzetto Bru Zane impone L'île du rêve alla nostra attenzione è, al solito, amabile e sofisticato. Il libro è ricco di documenti, approfondimenti, iconografia; l'incisione si avvale della direzione idiomatica di Hervé Nïquet a capo della Münchner Rundfunkorchester e del Choeur du Concert Spirituel, sempre una garanzia di qualità e coscienza stilistica. Cyrille Dubois si conferma uno dei più interessanti tenori della nuova generazione francofona, tanto saldo nella tecnica e nella musicalità da lasciare tutto lo spazio d'azione all'intelligenza dell'interprete per un Georges/Loti giovanile, sognante, virile come si conviene. Né sono da meno il petulante ma non eccessivo Tsen-Lee di Artavazd Sargsyan, il pacato Taïrapa di Thomas Dolié. Hélène Guilmette ha la freschezza, la malinconia, il fascino elusivo propri di Mahénu, soprano leggero cui si chiede di rinunciare a pressoché tutte le armi consuete del soprano leggero (quelle che nell'opera francese anche le parti più liriche in genere almeno una volta esigono); Ludivine Gombert fa della delirante Téria un bel cameo e con il suo limpido timbro mezzosopranile preconizza il futuro di Mahénu, nonché le ansie e le illusioni di Cio Cio San. Anaïk Morel nei panni della principessa Oréna è un modello di compostezza e saggia rassegnazione.
Riposti volumetto e CD, resta una certezza: condividiamo l'auspicio espresso dallo staff del Palazzetto Bru Zane per una nuova circolazione dell'Île du rêve magari in dittico con altre perle di breve durata fra le innumerevoli di un repertorio francese troppo trascurato.