di Roberta Pedrotti
N. Logoscino
Cantata, concerto per flauto traverso, Stabat Mater
Giulia Semenzato, soprano
Raffaele Pe, alto
Massimo Gatti, flauto traverso
Talenti vulcanici
Steafano Demicheli, concertatore al cembali
regostrazione effettuata a Napoli nel marzo 2018
CD Arcana 2019, A455
Nicola Logroscino (1698-1764) trova il suo posto nella storia della musica assicurato dal riconoscimento concorde alla sua importanza nell'evoluzione e affermazione dell'opera buffa. Tuttavia, nel concreto delle programmazioni teatrali e concertistiche, o anche dei progetti discografici, resta ancora in ombra e non si ha reale contezza che di una minima parte dei suoi lavori.
Questo CD magari non potrà colmare la lacuna, ma aiuta certo a inquadrare in maniera un po' più solida la figura del compositore di Bitonto, senza peraltro coinvolgere direttamente il genere cui Logroscino deve la sua fama. Abbiamo invece una cantata d'ambiente pastorale, un concerto per flauto traverso e lo Stabat Mater: musica vocale profana, musica strumentale, musica sacra. Nel primo caso la struttura più frequente Recitativo Aria Recitativo Aria, preceduta da una sinfonia di proporzioni non esigue, dà spazio al lamento di una ninfa tradita dall'amante e al suo attonito sconcerto all'idea della possibile punizione divina sul fedifrago. Siamo in un tipico contesto arcadico, con il suo repertorio di affetti amorosi e di contrasti ben equilibrati fra intenti edificanti (sdegno per la fede infranta, pietà e rifiuto dell'eccesso vindice) e patetica partecipazione. Lontani dai meccanismi comici, si nota comunque una squisita e teatrale sensibilità per il canto espressivo, sia nelle sfumature sentimentali, sia nell'articolazione ritmica della frase. Elementi ben presenti anche nella sua scrittura strumentale, come si evince sia nella Sinfonia della Cantata sia nel Concerto per flauto traverso, dove i tempi centrali di amoroso prima e di andante poi vantano una cantabilità per nulla affettata, anzi piacevolmente ombreggiata, in contrasto dialettico con gli allegri iniziali e conclusivi, soprattutto questi ultimi mai fini a sé stessi nella brillantezza e nell'esuberanza.
Ancora, lo Stabat Mater ribadisce questa serrata e vivida resa espressiva riducendo al minimo i recitativi, brevi nella durata quanto essenziali nei mezzi, ed espandendo lo spazio del canto sia sul piano di un radioso virtuosismo (basti pensare a Fac ut ardeat cor meum o Fac me plagis vulnerari del soprano solo), sia di levigato e introspettivo lirismo, di eloquenza assertiva e dotte, quanto incisive, sezioni fugate e contrappuntistiche a due. Soprattutto, si nota un gusto spiccato per il colore che le voci di Giulia Semenzato e Raffaele Pe rendono a meraviglia, distinguendosi e combinandosi sempre con esatta intenzione. Semenzato già nella cantata dà prova di una competenza stilistica già forgiata, nonostante la giovane età, con una ricca esperienza nel repertorio secentesco ed espressa con sfacciata naturalezza, senza che di una parola si perda, oltre che l'immediata chiarezza, la sostanza poetica e drammatica. Sia che si tratti di legare e modulare a diverse altezze, sia che debba sbalzare la parola in passaggi d'agilità ardita, non mancano mai nello Stabat Mater il nobile contegno dovuto all'argomento e la franca partecipazione patetica del fraseggio. La vocalità luminosa, fresca e rotonda incontra quella di Pe, chiara e virilmente astratta nel timbro quanto concreta nel porgere, anch'egli chiamato a una serrata, seppur mai brusca, alternanza di vari registri espressivi nel canto più agitato o più raccolto.
Nondimeno l'ensemble dei Talenti Vulcanici diretto al cembalo da Stefano Demicheli rende il gusto cantabile e coloristico partenopeo con una vivacità ben calibrata in ragionevoli contrasti, lasciando spiccare nel concerto il suono agile e ben tornito del flauto di Marcello Gatti, che al pari delle voci si dimostra timbrato e incisivo anche in una leggiadra franchezza d'emissione.
Si apprezza, poi, il fatto che le note di copertina siano previste anche in italiano, sebbene qualche trasandatezza formale (e quel pronome dativo “gli” riferito al personaggio femminile) spiaccia nel saggio altrimenti ben informato e assai utile di Rosa Leonetti.