di Roberta Pedrotti
G. Verdi
arie da La forza del destino, Don Carlos, Ernani, Falstaff, Il trovatore, La traviata, Macbeth, Nabucco, Otello, Rigoletto, Un ballo in maschera, Don Carlo
Ludovic Tézier, baritono
Paolo Antognetti, tenore
Frédéric Chaslin, direttore
Orchestra del Teatro Comunale di Bologna
registrazione effettuata a Bologna nel gennaio 2020
CD Sony 2021, 19439753632
Un recital di arie d’opera, per bravo che sia l’interprete, rischia sempre di trasformarsi in un trastullo, anche splendido, che decontestualizza il brano dalla drammaturgia e lo asservisce all’esibizione. Si è sempre fatto, non è una novità: nelle antiche accademie orchestre e solisti di grido cavavano dal baule arie o movimenti di sinfonie per la gioia degli astanti, e così procedeva serenamente l’attività musicale fuori da teatri e cappelle. Nulla di male, dunque, se si è consapevoli che poi l’opera è altra cosa che una collana di belle melodie intonate da una bella voce con accento coinvolgente e acuti al fulmicotone.
Poi, però, ci sono i fuoriclasse che sanno trasformare il recital in un’opera d’arte a sé. Ludovic Tézier è indubbiamente un fuoriclasse, me ne resi conto esattamente vent’anni fa, quando un giovanotto marsigliese allora sconosciuto fu invitato da Claudio Desderi, allora direttore artistico, come protagonista dell’Hamlet di Thomas. Ci si rese conto subito che quel principe di Danimarca così affabile poi in camerino per i dovuti complimenti aveva una marcia in più. Oggi, nella cerchia ristretta dei primi baritoni al mondo, incide il suo primo recital verdiano. Potrebbe essere l’album celebrativo di una grande carriera, è molto di più: un vero manuale dell’arte del cantante d’opera.
Facile dire che Tézier canti bene, che abbia una bella voce, morbida, omogenea, facile in tutta la tessitura. Insomma, facile sciorinare tutto il formulario di lodi variamente modulate per il bravo cantante. Però, non basta. Cantar bene Verdi è (anche) altra cosa e qui l’ascoltiamo.
Ascoltiamo innanzitutto il recitar cantando di un artista che non fa percepire differenza alcuna che si esprima in italiano o nella sua lingua madre. La parola fluisce naturale con coscienza della logica della frase, dell’articolazione del verso, dell’inflessione della melodia, tant’è vero che non avvertiamo mai una cesura fra recitativo, cantabile, declamato, cabaletta. I comodi schemi della “solita forma”, ereditati dal Basevi e rielaborati nel tempo da altri musicologi, non sono, appunto, che schemi linguistici che però nella realtà poetica e concreta vivono come logiche e consequenziali modalità d’espressione. L’esempio più eclatante può venire dalla complessa scena della morte del Marchese di Posa, che Tézier presenta sia in francese sia in italiano. In entrambi i casi, l’aprirsi del cantabile appare sempre, semplicemente necessario nel senso del discorso e del dramma, l’abbandono e il trasporto di “Ah, je meurs” / “Io morrò” rivela il genio verdiano quando non si culla nella nenia ma si avviluppa alla parola. Il confronto fra due libretti diversi, sebbene con situazioni identiche e in una interpretazione pressoché sovrapponibile, permette anche di notare come il singolo suono, le stesse figure, le stesse frasi musicali non siano mai equivalenti se corrispondenti a fonemi, parole, versi e testi diversi. Il minutaggio, poi, misura l’ineffabile, e una ventina di secondi di differenza ci dice che il francese risulti leggermente più compatto e concitato rispetto all’espansione richiesta dall’italiano.
C’è una grandezza insita nel fraseggio verdiano che non è e non deve essere magniloquente in senso deteriore: ogni istrionismo plateale ed esteriore è quanto di più lontano dalla nobiltà e dalla profondità, dalla reale dimensione teatrale di questa musica. Ascoltate l’invettiva di Rigoletto contro i cortigiani e ne avrete il perfetto esempio. Ma anche come la franchezza dell’amico di “Alla vita che t’arride” si trascolori in diversi scoramenti in “Eri tu”, come il nichilismo di Jago sappia essere sanguigno senza trascendere sopra le righe, come al perbenismo della paternale di Germont basti l’attenzione al senso del segno scritto (no, tutti i pp di cui è disseminata l’aria non sono uguali…) per diventare sincera, persuasiva, magnetica. Sembrerebbe ingeneroso non tributare il giusto omaggio a Don Carlo di Vargas, uno dei personaggi maggiormente legati al nome di Tézier sulle scene contemporanee (“Morir tremenda cosa” e il suo confluire in “Urna fatale” e “Egli è salvo!” è un capolavoro d’eloquenza musical teatrale); né all’omonimo Don Carlo re prossimo ad ascendere al soglio imperiale in una delle parti più belle e difficili mai scritte per baritono. La meditazione nel mausoleo di Carlo Magno e l’estatico invito amoroso a Elvira dispiegano le possibilità espressive del belcanto al pari dell’ardore cavalleresco del Conte di Luna o dell’impeto privo di speranza di Macbeth (peccato solo che ancora si adotti la lezione “Pietà, rispetto amore”, invece di quell’“onore” che Verdi voleva).
Chi desideri saggiare la prodezza vocale sarà appagato anche dal legato impeccabile di “Dio di Giuda” o dal pianissimo davvero impalpabile di “È sogno o realtà”, ma sarebbe davvero miope scindere il dato tecnico dal senso che imprime alla preghiera dell’empio re o all’incredulità del marito geloso. L’essenza di questo CD, che non si smetterebbe mai di ascoltare sta proprio qui: nella formidabile ampiezza di significati, sfumature, inflessioni che il declamato o la melodia, una dinamica, una parola, un suono possono assumere. La bacchetta analitica di Frédéric Chaslin è, in questo, fedele sostegno, tanto più se si accompagna a un’orchestra che vive praticamente in simbiosi con l’opera italiana qual è quella del Comunale di Bologna, davvero in ottima forma anche negli interventi solistici.
Come succede con i CD di questo livello, alla fine il difetto che si può lamentare è sempre lo stesso: troppo breve. Ottantadue minuti totali ci dicono che lo spazio disponibile è stato sfruttato all’ultimo secondo, non possiamo lamentarci, però resta, eccome, la voglia di ascoltare anche il recitativo e la cabaletta di Nabucco, la cabaletta di Germont, magari un “O sommo Carlo” (ma lì ci vorrebbe anche una bella schiera di pertichini, mentre qui abbiamo, proprio in Ernani, il solo Don Riccardo dello squillante Paolo Antognetti), e poi, magari “Dagli immortali vertici”, “Au sein de la grandeur” e Foscari, Boccanegra, il sadico Francesco Moor… Vorrà dire che lo aspettiamo in teatro. E, francamente, non vediamo l’ora.