di Roberta Pedrotti
G. Donizetti
Il paria
Kiria, Shagimuratova, Mimica, Barbera
direttore Sir Mark Elder
Britten Sinfonia
Opera Rara Chorus, diretto da Stephen Harris
registrazione effettuata a Londra, 1-6 giugno 2019
CD Opera Rara, 792938006024, 2021
Due giovani innamorati, lui valoroso guerriero che però si scopre d'umilissime origini e figlio del peggior nemico del gran sacerdote padre di lei. Siamo in India, ma potremmo essere ovunque per un melodramma ottocentesco di amori contrastati, doveri e affetto familiari, scontro politici e religiosi. Il cliché è dunque servito? No, perché gli schemi e i topoi di un linguaggio non hanno un valore di per sé, ma solo nell'uso che ne viene fatto. Nel caso del Paria, Donizetti ci offre un esempio perfetto di cosa significhi trattare modelli ricorrenti e creare un'opera originale, perfino con un libretto di Domenico Gilardoni che non brilla per efficacia drammatica e musicalità del verso. Nel 1829, scrivere per la prima volta per il San Carlo significa inserirsi là dove è ancora viva l'eco del settennato rossiniano, senza sapere che di lì a poco il Pesarese avrebbe lasciato il teatro e le scene operistiche ne avrebbero agognato l'erede. Con i suoi soli sette numeri ripartiti in due atti, Il paria si pone esattamente sulla strada tracciata da Rossini per l'ampliamento e la fusione delle forme standardizzate, la stessa strada poi della sintesi verdiana, ma senza passaggi di testimone lineari, bensì irradiando e intrecciando esperienze e personalità differenti. Anche quelle che potrebbero sembrare debolezze del testo (e dal punto di vista della versificazione lo sono) diventano armi in mano al giovane bergamasco dal talento scalpitante: il tenore coperto di onori militari ma di fatto capace solo di lamentarsi offre l'opportunità di suggestive, antieroiche malinconie per Giovan Battista Rubini; il finale sbrigativo in cui il bieco bramino manda a morte anche la figlia senza fare una piega, anzi gongolando perché nulla si oppone più alle sue ambizioni, ci sbatte in faccia una malvagità gratuita e fanatica che prefigura la strage di San Bartolomeo negli Huguenots, l'amoralità di Macbeth o Jago. Naturalmente ancora abbozzato, in sedicesimo, ma la convinzione luminosa dei condannati contrapposta al secco epilogo del basso mostrano già l'intuizione del grande drammaturgo musicale. Lo stesso compositore drammaturgo che magari farà alzare il dito all’ascoltatore moderno, con a portata di mano mille e mille registrazioni ufficiali e ufficiose di quasi ogni opera, allorquando si intende un’eco di Lucrezia Borgia o Anna Bolena. Sì, certo, c’è musica che verrà riutilizzata in seguito, ma tutti i luoghi comuni sull’autoimprestito come “riciclo” un po’ furbetto andrebbero definitivamente spazzati via: si tratta, ancora una volta, semplicemente di elementi espressivi, forme riconoscibili per suggerire un clima festoso, una marcia trionfale, l’ingresso solitario di un personaggio ansioso. Strumenti, parti di un linguaggio, la cui ricorrenza in testi diversi non incide sul valore o un’idea aleatoria d’originalità, bensì definiscono un codice di gesti teatrali e comunicazione con il pubblico.
In attesa di rivedere Il paria con tutti i crismi sulla scena, Opera Rara si impegna a offrirne un'incisione che possa essere di moderno riferimento e che senz'altro colma una lacuna discografica garantendo il consueto alto livello complessivo e dove tutto funziona a dovere. Sir Mark Elder, d’altra parte, è una sicurezza, con la sua esperienza, la sua decennale collaborazione con l’etichetta britannica, l’articolazione chiara, sicura, brillante. Albina Shagimuratova ha voce limpida ma non esangue, ben adatta a Neala, e convince sempre più nel corso dell’opera, dopo alcune agilità corrette ma tendenti al nasale nella sortita. Il suo innamorato Idamore è affidato a René Barbera, che affronta senza problemi l’impervia tessitura pensata per Rubini mentre cerca, ove possibile, di evitare accenti troppo lamentosi; Marko Mimica, Akebare, è giustamente inflessibile e imperturbabile nell’ambizione e nell’odio cieco verso i paria. Non sarà un caso che, di fronte a un così rigido antagonista, il guizzo più interessante del libretto venga proprio nell’orgogliosa risposta del reietto Zarete, padre di Idamore e novello Shylock nel proclamare “In che diverso sei | dai Paria che tu vuoi proscritti, e rei? | Forse non abbiam noi | un sangue nelle vene al par di voi?”. Un’affermazione di dignità che innesca un ensemble, "La sorte di noi miseri",in cui l’ascesa al patibolo è quasi gioiosa, mette in ombra il trionfo del tiranno e fa pensare a quel che canterà anni dopo Israele Bertucci in Marino Faliero, giacché in entrambi i casi il martirio è esaltato come esempio per future affermazioni di giustizia. Non stupisce davvero che il giovane Donizetti abbia accarezzato l’idea di tornare sul Paria per garantirgli maggiori fortune. La revisione, purtroppo, non venne, ma l’opera merita di essere conosciuta anche per la sua concisione e le sue intuizioni, per il bel personaggio dell’eponimo paria Zarete, creato da Luigi Lablache e a cui spettano, su sette soli numeri, una cavatina, un duetto (ch’è anche finale primo) e un’aria oltre al ruolo preponderante nel finale secondo. Un personaggio che potrebbe allettare artisti di primo piano e che qui trova nel buon baritono Misha Kiria non più che una definizione corretta. Compie il suo dovere, ma aspettiamo ancora il mordente, la statura retorica che la parte esigerebbe. Dunque, appena le porte dei teatri si riapriranno, a Bergamo o anche altrove, che quest’incisione sia d’ispirazione per rivedere Il paria sulle scene.