di Roberta Pedrotti
G. Meyerbeer
Romilda e Costanza
Brunello, Fatyol, Kabongo, Mastrototaro, Franco
direttore Luciano Acocella
Górecki Chamber
Choir Passionart Orchestra
Registrazione effettuatata Bad Wildbad nel luglio 2019
3CD Naxos, 8.660495-97, 2020
In Italia, Jakob Liebemann Beer prende il nome, l’italianizzato Giacomo, che lo vedrà trionfare abbinato al cognome fuso - per ragioni d’eredità - a quello del ricco nonno Meyer. In In Italia, Giacomo Meyerbeer si forma come operista, compie il suo apprendistato e affina gli strumenti che poi, a Parigi, confluiranno in quello stile cosmopolita e personalissimo che sarà fra i più influenti - e ingombranti - del teatro musicale ottocentesco. Grazie al benemerito festival Rossini in Wildbad, ascoltare il suo debutto pressoché assoluto - in Germania aveva già sperimentato qualche lavoro operistico - è, dunque, di grande interesse storico, più ancora che strettamente musicale. Come per tutti i coetanei di Rossini e le generazioni immediatamente successive, il rapidissimo formarsi e affermarsi dello stile del Pesarese è una rivoluzione, una moda, un modello con cui fare i conti e a cui è difficile sottrarsi senza uniformarsi. Questa Romilda e Costanza è, dunque, imbevuta di rossinismo della più bell’acqua. Le strutture, i moduli ritmici e melodici, tutto tende al gusto dominante, osserva devoto un genio da cui prender lezioni come il pittore che copia capolavori per affinare i suoi strumenti mentre crea un proprio stile. E in effetti, se del Rossini vero e proprio manca la scintilla originale, qualche barlume della futura personalità si nota, per esempio nel carattere pittoresco e pastorale del coro “Battete allegri i cimbali”, in cui si ammicca anche alle atmosfere della Nina pazza per amore di Paisiello, ma si profila pure il romantico interesse al color locale che tanta importanza avrà nel grand opéra.
Devotamente rossinista è senz’altro anche la scelta, per il debutto nell'orbita veneta (Padova, 19 luglio 1817), dello stesso librettista che aveva tenuto a battesimo Rossini al Teatro San Benedetto di Venezia con La cambiale di matrimonio, che lo avrebbe accompagnato nella consacrazione, alla Fenice, con Tancredi e che di lì a poco avrebbe segnato, sempre nel principale teatro della Laguna, l’addio del Pesarese alle scene italiane con Semiramide: Gaetano Rossi. Ma, per usare gli autoironici versi di Cesare Sterbini (riferiti a Torvaldo e Dorliska), si tratta qui di “al solito un dramma semiserio, un lungo, malinconico, noioso, poetico strambotto! Barbaro gusto! secolo corrotto!” Due gemelli, uno buono e uno cattivissimo, il buono designato al trono e il secondo invidioso; il gemello buono ha una innamoratissima promessa sposa ma anche un’amata moglie segreta camuffata da paggio. Inevitabile, fra le congiure del malvagio, il balletto di rivalità e alleanze fra le donne, cui si aggiungono scudieri, padri, complici titubanti, un fratello di latte contadino dei gemelli che parteggia per i buoni e garantisce qualche scena spensierata organizzando il proprio matrimonio. In attesa del lieto fine, di tutto e di più, in un romanzesco mondo feudale da feuilleton gotico, zeppo di intrighi e colpi di scena, occasione per un bel ventaglio di caratteri, situazioni e sentimenti, ma davvero troppo macchinoso per aver duratura fortuna sulla scena (oggi avremmo bisogno di un regista davvero coraggioso e geniale per digerirlo). Per i tempi è senz’altro un bel saggio delle mode narrative e teatrali, nonché dell’importanza del compositore drammaturgo: Rossi fu senz’altro un grande librettista, ma è la collaborazione con grandi musicisti ad avergli stimolato i frutti migliori. Rossini, parimenti, ha avuto a che fare con soggetti fenomenali e altri più zoppicanti, riuscendo comunque sempre a indirizzare la drammaturgia verso esiti non privi d’interesse e potenzialità teatrali.
Se nel cast della prima assoluta i nomi più noti furono di Rosamunda Pisaroni (Romilda) e Caterina Lipparini (Costanza), la prima vera e propria stella del firmamento belcantistico, qui nella ripresa moderna sono le due rivali a lasciare più perplessi. Se la cava senza brillare il contralto Chiara Brunello come Romilda, arranca in modo abbastanza palese il soprano Luiza Fatyol quale Costanza. Patrick Kabongo, formato all’Accademia del Maggio Fiorentino, è un corretto Teobaldo, il conteso gemello buono; le parti di mezzo carattere di Pierotto (il contadino fratello di latte di Teobaldo) e Albertone (lo scudiero del cattivo) sono assai ben servite da, rispettivamente, Giulio Mastrototaro ed Emmanuel Franco. Javier Poverano è il perfido Retello, la cui parte è in realtà piuttosto esigua e sopravanza di poco quelle dei comprimari Lotario (César Cortés), Annina (Claire Gascoin) e Ugo (Timophey Pavlenko). Luciano Acocella dirige con la sicurezza dell’esperienza e fa quadrare i conti.
Le note dettagliate di Sieghart Döhring, la sinossi minuziosa di Reto Müller e le biografie di tutti gli interpreti completano il confanetto.