di Giuseppe Guggino
Saverio Mercadante
I briganti
Maxim Mironov, Vittorio Prato, Petya Ivanova, Bruno Praticò
direttore Antonino Fogliani
Bad Wildbad, Trinkhalle, 14-21 luglio 2012
2CD Naxos/Deutschlandradio Kultur 8.660343-44, 2014
World premiere recording
Il mito della Salle Favart prima dell’incendio del 15 gennaio 1838 e il mito nel mito del quartetto dei Puritani aleggiano inevitabilmente su questi Briganti. Per capire le ragioni del mito basta semplicemente aprire lo spartito de I puritani, del Marin Faliero e di questi Briganti di Mercadante; si tratta delle tre opere che - tra il ’35 e il ’36 - segnarono il debutto a Parigi dei tre maggiori operisti italiani del momento ed essendo scritte tutte e tre per il Théâtre Royal Italien, più noto come Théâtre des Italiens, sono modellate sulle vocalità di Giovan Battista Rubini, Giulia Grisi, Antonio Tamburini e Luigi Lablache. Sia per la volontà di impressionare il pubblico parigino, sia per il drappello di fuoriclasse messi sotto contratto da Edouard Robert e Carlo Severini (con le casse del banchiere Aguado), non è difficile immaginare quanto l’opera possa risultare irta di difficoltà. Nonostante la composizione sia avvenuta in contingenze di tempo piuttosto stringenti, la qualità musicale del lavoro è notevolissima, sebbene il successo arrisogli non sia stato tra i più convinti nella carriera dell’operista pugliese, colto qui all’inizio della sua fase di maturità artistica (Il Bravo e Il giuramento seguiranno di pochissimi anni I briganti).
La trama è identica a quella dei più noti Masnadieri verdiani, essendo identica la fonte schilleriana di partenza, cambia la qualità dei versi, non essendo Jacopo Crescini neanche lontanamente confrontabile con Maffei; identica è la distribuzione dei ruoli, con il conte Massimiliano Moor scritto per Lablache, il figlio cattivo Corrado affidato al baritono, il figlio “buono” Ermanno di diritto alla voce maschile dell’angelo Rubini e Amelia ovviamente affidata a Giulia Grisi.
Al festival Rossini in Wildbad – che ormai da qualche anno ha la prerogativa meritoria di dedicarsi al ricupero di questo tipo di repertorio – si deve il merito di questa prima esecuzione in tempi moderni immortalata in cd (con tutti i rumori e ronzii di scena) dalla Naxos.
Nel quartetto radunato dal festival tedesco Vittorio Prato è uno splendido Corrado, capace di affrontare la scrittura baritonale con un legato sufficientemente morbido per i cantabili e con un agguerritissimo piglio indispensabile per le micidiali quartine di forza che tempestano innumerevolmente la parte; spiace la scorciatura della seconda aria nel terzo atto si abbatta sull’elemento più valido del cast, giacché per gli altri protagonisti più che con masnadieri, si ha l’impressione di aver a che fare con simpatici brigantelli. Sarà stata una scelta filologica (giacché Lablache sapeva alternare il buffissimo Barone di Dolsheim al dolente Sir Giorgio Valton), ma non appena nel secondo atto giunge il primo gemito di Bruno Praticò e inizia il serissimo duetto dell’agnizione con figlio reietto Ermanno, si intuisce che a volte la filologia non paga in termini di risultati.
Anche Petya Ivanova, tutto sommato corretta, non restituisce giustizia alla parte di Amelia, sostanzialmente centrale che difficilmente sale oltre al la naturale (esattamente come Elvira dei Puritani, erroneamente appannaggio dei sopranini) a causa di un timbro scarsamente avvenente e una tecnica perfettibile che entra in crisi fra trilli e trillettini vari; la pervicacia nell’interpolare Re bemolle (a fine sortita) e Mi bemolle (a fine duetto), infine, può far incorrere nel rischio di tramutare i briganti in pellirosse.
Discorso a parte merita la parte tenorile di Ermanno che è onerata di una cavatina di sortita, seguita da duettino e finale nel primo atto, una scena con orgia strofica al ritmo energico di polacca (una sorta di autoimprestito del Coro dalla Caritea Regina di Spagna) e preghiera incastonata da insiemi di violoncelli (il modello del Tell!), seguita dal duetto col padre a occupare l’intero secondo atto, un numero a conclusione dell’opera che nominalmente è un terzetto che sfocia in un’aria bipartita con da capo (sul modello del finale del Pirata, quando Imogene era Adelaide Comelli). Il tutto cantato su regioni siderali del pentagramma, toccando sovente Re (nella cadenza di “Questi due verdi salici” e nel duettino seguente come trampolino di spericolate scale discendenti ripetute) e Mi bemolle (sfiorato nella successiva cabaletta, e ribattuti nella sezione centrale del duetto col padre) rigorosamente scritti in partitura. Maxim Mironov affronta tutto senza sconti e non si può dire certamente che faccia male, anzi occorre riconoscergli l’onore delle armi in un ruolo sì impossibile, tuttavia la voce sbiancata, androgina, afflitta da un’emissione tremula non corrisponde né al carattere del personaggio né alla vocalità di Rubini che – giova ricordarlo – sebbene avvezzo ad Ubaldo/Giacomo nella Donna del Lago (affrontato però sostituendo le arie per Giovanni David), a Parigi nel ’27 cantava Rodrigo di Dhu.
Funzionali i comprimari Rosita Fiocco (Teresa), Atanas Mladenov (Bertrando) e Jesùs Ayllon (Rollero).
La mano affidabile di Antonino Fogliani riesce a cavare buoni risultati di Virtuosi Brunensis, sebbene non si rivelino un complesso particolarmente votato al bel suono; molto riuscito il bellissimo finale primo che ricalca il sestetto della Lucia, mentre la Camerata Bach Choir (Maestro del coro Tomasz Potkowski) affronta con flemma i numerosi cori dell’opera, di taglio riconducibile al filone del Rossini serio.
Note di copertina molto spartane in lingua inglese, ma quantomeno la tracklist reca l’indicazione dei numeri chiusi (lusso che case discografiche blasonate ormai non si concedono più), libretto scaricabile on line, cura editoriale onestamente commisurata al prezzo.