di Roberta Pedrotti
C.E. Pasta (orchestrazione Matteo Angeloni)
Atahualpa
Argiris, Ballotta, Magrì, Ladyuk, Cigni
Coro y Orquesta Nacional del perù
direttore Manuel Lopez Gomez
Lima, Gran Teatro Nacional, 23 e 25 marzo 2015
2 CD Universal music, 481 1771, 2015
A cadenza regolare, fra giochi olimpici e mondiali di calcio, il risuonare degli inni nazionali latinoamericani provoca qualche brivido al pubblico melomane, che vi riconosce inevitabilmente reminiscenze donizettiane, profumi rossiniani, assonanze verdiane. Eppure, quando si parla di melodramma ottocentesco in terre di lingua ispanica, al di qua o al di là dell'Atlantico, il discorso sembra ridursi al brasiliano Gomez e alle sue Fosca e Il guarany, un tempo di - relativo – repertorio. Un vero peccato, perché bisognerebbe almeno ricordare che Rossini diede a Lisbona, nel 1826, la sua Adina o che Mercadante destinò ben sette titoli del suo catalogo al debutto iberico (ancora Lisbona, Cadiz e Madrid). Perché varrebbe la pena di ricordare anche il navarrese Emilio Arrieta (1823-1894), noto soprattutto per la zarzuela Marina, e la sua La conquista di Granada su libretto di Temistocle Solera, o il catalano Ramon Carnicer (1789-1855), parimenti autore di opere su versi di Tottola o Ferretti. Italianissimi, oltre ai libretti, erano anche i modelli musicali, che paiono stringere uno stretto rapporto di fratellanza e continuità.
Non pare, dunque un'eccezione, ma merita di essere conosciuta, l'esperienza di Carlo Enrico Pasta (Milano 1817-1898), che visse fra Cile e Perù per una trentina d'anni inframmezzati giusto da un biennio italiano per rappresentare a Genova nel 1875, in prima assoluta, il suo Atahualpa.
Dell'opera, purtroppo, non è sopravvissuta una partitura completa, né una traccia della stesura strumentale, limitandosi le fonti a una riduzione a stampa per canto e piano. Nel momento in cui per l'edizione 2013 del Festival Internazionale d'Opera Alejandro Granda si è deciso di procedere a un meritorio recupero con tutti gli onori e all'incisione discografica, si è dunque resa necessaria una ricostruzione dell'orchestrazione a cura del compositore Matteo Angeloni [leggi l'intervista]. La via scelta è quella della piena adesione allo stile dell'epoca, ma senza adagiarsi in una maniera passiva e rinunciare a un tratto creativo, per una resa assolutamente credibile e plausibile che sviluppa bene tutte le suggestioni presenti alla lettura dello spartito superstite. L'articolazione del testo da parte di Pasta non possiede sempre l'incisività verdiana, ma riecheggia felicemente il linguaggio del primo Verdi e dell'ultimo grand opéra; i richiami di color locale non paiono meramente esornativi, bensì inseriti in un disegno drammaturgico cui l'autore aderisce con entusiastica e sincera partecipazione. Sono così maggiormente messi in luce gli elementi di originalità rispetto a quelli più convenzionali, conferendo all'opera una schietta energia e una cifra singolare, nella quale anche il trionfale apparire dell'inno peruviano nel finale suona coinvolgente e ispirato, non posticcio o scontato. Inno, non sarà inutile ricordarlo, opera del limeño José Bernardo Alcedo, ma orchestrato e rielaborato da un altro italiano in Perù, Claudo Rebagliati, nel 1869.
Il libretto di Antonio Ghislanzoni, d'altra parte, desta impressione. L'impianto è quello del romanzone storico in musica figlio del grand opéra meyerbeeriano, genere alla moda capace di comprendere il capolavoro (Aida) come il feuilletton. Il librettista, vessato e tiranneggiato da Verdi pochi anni prima, sembra aver assimilato assai bene la lezione drammaturgica del bussetano e, pur senza ripetere i vertici plastici del verseggiare dettato dal compositore, ce ne dà prova con un duetto fra Cora e Atahualpa chiaramente memore di quello fra Aida e Amonasro. Oppure con un duetto d'amore non suggellato dalla cadenza unisona di una stretta, bensì riaperto in una coda che ricorda la ripresa di “Numi, pietà” al termine dello scontro fra Aida e Amneris. Sarebbe, però, un errore, leggere questo libretto solo attraverso il filtro di Aida. Atahualpa è un'opera politicamente forte, perfino disorientante per il suo modo di trattare un soggetto potenzialmente convenzionale come pochi: scontro di popoli, vincitori e vinti, cristiani e pagani, amore contrastato fra due giovani appartenenti agli opposti schieramenti. Ci si potrebbe limitare a parteggiare per gli Incas, a simpatizzare per gli sconfitti, ma Ghislanzoni e Pasta fanno qualcosa in più, qualcosa che va anche oltre il carattere patriottico e celebrativo dell'opera e riguarda l'aspetto religioso del conflitto. La letteratura operistica è piena di abiti talari ammantati di luci sinistre, ma difficilmente queste arrivano a mettere in dubbio la validità della fede in sé. Viceversa per il personaggio pagano il riscatto si identifica sovente con la conversione al cristianesimo. Dopo aver assistito a una scena in cui l'imperatore inca irride il crocefisso e getta a terra con disprezzo il Vangelo, ci aspetteremmo, dunque, che la grande scena del carcere successiva culmini in una preghiera sul modello di Nabucco: nulla di tutto questo, Atahualpa rifiuta recisamente il battesimo e la notizia della sua conversione è diffusa ad arte dagli spagnoli per sottomettere i nativi, ma subito smentita da Cora e dai testimoni degli ultimi istanti dell'Inca. La fierezza con cui la nipote del sovrano rinnega il battesimo accettato in un momento di debolezza e torna agli antichi dei della sua gente possiede un tratto eroico inequivocabile. Tuttavia, e questo è uno degli aspetti più sottili, la religione incarnata dal perfido, implacabile monaco Vicente de Valverde non è semplicemente identificata con gli invasori spagnoli. È, con sorprendente modernità (Feuerbach comincia a pubblicare sulla religione nel 1841 e son temi decisamente delicati per entrare senza traumi nel melodramma italiano), l'oppio dei popoli che avvelena anche gli stessi invasori, come chiarisce perfettamente l'introduzione, in cui i soldati stanchi di una guerra inutile combattuta così lontano da casa meditano di abbandonare la folle impresa, ma vengono infiammati e persuasi dal fanatismo del monaco. Anche Pizarro pungola i suoi con argomentazioni patriottiche, ma è l'ombra della croce a vincere ogni resistenza, a ispirare perfino vergogna per quel desiderio di pace. Di fatto, i conquistadores possiedono una loro nobiltà, pur trovandosi dalla parte sbagliata; il condottiero spagnolo sa esprimere dubbi e dignità, dimostra una sorta di buona fede, di sincerità nel suo voler offrire un impero alla corona. Valverde no, è un granitico profeta del fanatismo e dell'integralismo, un basso demoniaco più che patriarcale, ma che, a differenza di tanti diavoli musicali, si prende sempre maledettamente sul serio. E la religione cristiana è totalmente assorbita e identificata con la personalità del suo rappresentante, non c'è speranza sovrannaturale, solo un instrumentum regni cui tenta invano di opporsi Soto riecheggiando la Giselda verdiana “No, no! Di sangue umano | olocausti non chiede il Dio cristiano!”; viceversa il culto solare degli Incas rappresenta un ideale fra il panico fin de siècle e l'antico deismo degli illuministi teorizzatori del mito del bon sauvage. Insomma, una visione che supera di un balzo anche l'anticlericalismo luciferino degli Scapigliati e sviluppa fino alle estreme conseguenze lo sguardo storico critico dell'ebreo Meyerbeer verso cattolici, ugonotti, anabattisti.
Quanto all'esecuzione, differisce nelle premesse più che negli esiti la prova dei due amanti. Ivan Magrì potrebbe avere la voce giusta per lo spagnolo Soto, il repertorio che frequenta è coerente con la scrittura lirica splendente, eroica e amorosa, del giovane spagnolo idealista. Il problema viene semmai da una musicalità fuori fuoco e da una tecnica impari alla generosità di una natura che deve imporsi di forza, senza solide basi che evitino, per esempio, fastidiosi vibrati e cali d'intonazione. Un peccato perché il materiale sarebbe di ottima qualità, il trasporto espressivo adeguato.
Non si può negare ad Arianna Ballotta ben altro garbo nell'emissione e nella musicalità, ma la voce è davvero troppo leggera, esilissima e delicata come all'uso dei sopranini liberty di una volta. Solo che Cora non ha nemmeno passi d'agilità dove far valere virtù d'usignolo: è un ruolo da soprano lirico cui capita, benché di rado, di essere raddoppiato dall'orchestra, nella cui tessitura ricorrono soventi i La acuti con eventuali ascese al Si bemolle, ma che deve anche toccare Do sotto il rigo. Soprattutto, deve possedere un'incisività e una pienezza d'accento cui, purtroppo, il timbro sottile della Ballotta risulta impari: Soto è un tenore amante di nobili sentimenti, dall'inizio contrario alla guerra contro gli incas e rispettoso della cultura nativa quanto sinceramente fedele alla propria, che sdegna solo in un istante di massima ira; Cora è una figura tormentata, che scopre gradualmente l'amore, che vive oscuri presagi, è lacerata fra diversi sentimenti, cede per un momento alle pressioni degli invasori e accetta perfino il battesimo, infine morendo rinnega ogni legame con gli spagnoli e la loro religione ergendosi a orgogliosa eroina del suo popolo. Se poco sappiamo della prima interprete (Carina Mocoroa), nel suo repertorio notiamo opere come La forza del destino, quanto, dunque, di più lontano dai mezzi della pur volenterosa Ballotta, che pare un paggio Oscar nei panni di Amelia.
Pur senza schierare impeccabili e travolgenti fuoriclasse, convincono senza riserve, viceversa, le voci gravi, con Aris Argiris nel ruolo eponimo. Gli si potrebbe imputare una dizione non sempre sicura nel differenziare consonanti doppie o singole, ma questa pronuncia un po' esotica si confà al personaggio, reso con saldo accento e fraseggio fiero, acceso, sempre efficace anche negli spigoli. Ben si differenzia l'altro baritono, Vassily Ladyuk, quale Pizzarro capace anche di ripiegamenti lirici e malinconici (soprattutto nell'ispirata “O fratel! Se al suolo ispano”), resi con encomiabile impegno. Spietato e torvo come si conviene il Valverde di Carlo Cigni.
A capi dei lodevoli complessi locali, Coro e Orquesta sinfonica nacional del Perù evidentemente assai ispirati, Manuel Lòpez-Gòmez figura assai bene con una concertazione chiara, fluida, energica e ben calibrata, davvero all'altezza della riscoperta. Di qualità anche la ripresa audio.
Apprezziamo l'inserimento del libretto integrale nel cofanetto, mentre ci sarebbe piaciuto un maggior approfondimento nei testi esegetici, che talora peccano di qualche refuso e svista nella traduzione italiana (investigator riferito a un musicologo, per esempio, viene reso con “investigatore” e non “ricercatore”). Limiti dettati più che altro dal vivo interesse che Atahualpa desta all'ascolto e che ci lascia con il desiderio di saperne sempre di più, di vederla magari messa in scena anche nella terra natìa, e non solo nella patria adottiva, di Pasta.