di Roberta Pedrotti
G. F. Händel
Ottone, re di Germania
Cencic, Snouffer, Kudinov, Hallenberg, Sabata, Starushkevych
George Petrou, direttore
Il Pomo d'Oro
3 CD Decca, 483 1814, 2017
Il contratto di Master of the Orchester della Royal Academy of Music, costituita nel 1719, conferiva a Händel prerogative da direttore artistico, compreso il reclutamento di una compagnia di canto che avrebbe dovuto essere all'altezza della corona britannica. Viaggiando in Europa per procacciar idee e talenti – ché il direttore artistico non si poteva fare allora dietro uno scrittoio per via epistolare né oggi si potrebbe solo con un telefono e un computer – non solo Händel scritturò nomi del calibro dei castrati Senesino e Gaetano Berenstadt e del soprano (tutti alla prima collaborazione con il compositore), di Margherita Durastanti (già nota da un quindicennio al Sassone), di Giuseppe Maria Boschi (che a Londra era già stato Argante nel Rinaldo), ma assistette anche a Dresda all'opera Teofane di Antonio Lotti. Questa sarà d'ispirazione per il soggetto, e non solo, del debutto della nuova compagnia nel 1723: Ottone.
La genesi del nuovo dramma in musica non fu semplice, anche per le schermaglie fra compositore e nuove voci, in particolare la diva Cuzzoni, che costrinse Händel a riscrivere parte della musica destinatale. Le cose non migliorarono con la ripresa del 1726: era consuetudine, naturalmente, che si riadattassero le partiture a nuove compagnie, meno che fosse lo stesso interprete, tornando a un ruolo scritto su misura per lui, a esigere nuove arie, tanto più che quel che si ascolta della seconda versione per il Senesino non sembra riflettere mutate condizioni vocali o una così significativa redistribuzione degli affetti, pur privilegiando la coloratura al canto patetico.
Dato particolarmente significativo, in un'opera che doveva fungere anche da vetrina per una nuova compagnia con divi al debutto a Londra, è la prevalenza del sentimento sull'esuberanza virtuosistica, degli aspetti psicologici e avventurosi dell'intreccio su quelli più vistosi e appariscenti. Senza dubbio Händel non fu un autore spericolato per quel che concerne il canto che, anzi, oltre Manica e per altre penne si stava accendendo di ben altrimenti ardito; nel contempo val sempre la pena ricordare che più ancora dei fuochi pirotecnici di trilli, gruppetti e sbalzi vocali, nell'età dei castrati una delle virtù più lodate era proprio la padronanza del canto d'espressione, la capacità di commuovere e turbare l'uditorio con l'arte musicale poetica e retorica. Il libretto stesso, poi, più per una spettacolarità grandiosa, si fa notare per una drammaturgia movimentata, e negli ambienti – Roma e dintorni – e nelle situazioni, con una complessa scena notturna in riva al Tevere, fra scambi di persona, fughe e rapimenti, una tempesta marina. Soprattutto, però, in una vicenda tratta dall'alto medioevo cavalleresco e non dalla classicità o dal mito letterario, tutto si gioca sulla scacchiera dell'intrigo politico e sentimentale, con un sofisticato intreccio d'inganni e tensioni psicologiche che vede al centro tre figure femminili: Gismonda, vedova di Berengario decisa a porre sul trono il figlio Adelberto, Matilda, indomita guerriera cugina di Ottone ma capace anche di tradirlo alleandosi temporaneamente con la madre dell'amato nonostante costui l'abbia tradita, Teofane, principessa bizantina promessa a Ottone, in luogo del quale le viene presentato Adelberto. Questi, ambizioso e sensuale, si contrappone all'eroico rivale, i cui sentimenti sinceri si trovano tuttavia a vacillare di fronte alle situazioni ambigue in cui l'intricata trama pone una sempre più disorientata Teofane. Deus ex machina sarà l'agnizione del di lei fratello Basilio nel pirata Emireno, che tosto abbandonerà le parti di Adelberto per quelle di Ottone, garantendo un lieto fine in cui le coppie si ricompongono e la clemenza imperiale consolida il potere.
Max Emanuel Cencic si assume l'onere e l'onore del ruolo eponimo pensato per il Senesino: la tessitura è piuttosto grave per lui e si nota, ormai, come l'insistenza in parti contraltili lo abbia un po' affaticato, tuttavia non solo le parti di coloratura sono affrontate, specie salendo verso il registro medio-acuto, con l'agio e la souplesse che ci si attendono da un interprete del suo calibro, ma soprattutto la classe dell'artista si constata nella classe delle pagine più melanconiche ed elegiache. Un gradino più in basso si pone l'Adelberto di Xavier Sabata, certo meno sollecitato nella gerarchia dei personaggi e adeguato vocalista, ma dal quale si sarebbe auspicato un accento più vario e mordente soprattutto nei recitativi, per dare adeguato spessore alla personalità ambigua e insidiosa del principe. Completa la terna dei personaggi maschili il valente basso Pavel Kudinov, che convince con un'efficace caratterizzazione dell'erede bizantino sotto le spoglie del pirata avventuriero Emireno.
Domina gli intrighi la splendida Gismonda di Ann Hallenberg, che ancora una volta sale in cattedra per la padronanza dello stile e della tecnica posta al servizio della musica e del dramma. In lei convivono la fierezza, l'ambizione, il cinismo politico, la menzogna e una tenerezza materna che si dipana nella splendida berceuse “Vieni, o figlio, e mi consola”.
Dal canto suo, nella parte più grave di Matilda (per dare un riferimento concreto, la prima interprete Anastasia Robinson creerà anche Cornelia in Giulio Cesare, mentre la prima Gismonda, Margherita Durastanti, nella stessa opera sarà il ben più acuto Sesto), Anna Starushkevych non avrà emissione altrettanto pura e naturale in basso, ma rende con gusto ed energia questa “amazzone germana”, crescendo di atto in atto e siglando con Ann Hallenberg un luminoso duetto di trionfo dopo la fuga di Adelberto alla fine del secondo atto.
Fra due figure femminili così dinamiche e attive, veri propulsori del dramma, abbiamo l'introspezione di Teofane, incarnata con delicata freschezza da Lauren Snouffer. Il soprano statunitense delinea senza alcuna affettazione di maniera, ma con una disarmante sincerità lo smarrimento e i dubbi della principessa in tutta la sua umanità. Se le arie patetiche palpitano in un fraseggio incantevole per l'equilibrio fra intelligenza stilistica e innocenza d'accento, la conclusiva “Gode l'alma consolata” colpisce per la leggiadria del canto fiorito.
George Petrou, a capo dell'ensemble Il pomo d'oro, è ormai una sicurezza e sa evidenziare a dovere sia le sfumature degli affetti, sia le atmosfere del quadro notturno sulle rive del Tevere e delle varie sinfonie che punteggiano la partitura definendo ambienti e, soprattutto, la tempesta del terzo atto. Resta da fare un appunto: in un cast privo di madrelingua si avverte qualche impaccio nei recitativi che dovrebbero essere, appunto, recitazione intonata fluida e teatrale, evitando pause e respiri fuori posto in una corretta ed efficace prosodia italiana. Peccato perché il libretto è davvero avvincente e la musica di Händel respira qui di una verità di sentimenti e di una teatralità incalzante davvero rare.
All'altezza dell'etichetta Decca la cura del libretto, con le note di David Vickers, e della registrazione, chiara nell'esplicare la scelta delle versioni delle arie rimaneggiate per Francesca Cuzzoni e comprensiva in appendice delle tre arie riscritte nel 1726 per il Senesino.