di Roberta Pedrotti
F. Halévy
La reine de Chypre
Gens, Dubois, Dupuis, Hucher, Stamboglis
Hervé Niquet, direttore
Orchestre de Chambre de Paris
Flemish Radio Choir
registrato a Parigi, Théâtre des Champs Elysées, 5-7 giugno 2017
Saggi di Gérard Condé, Diana R. Hallman, José Pons, Volker Tosta
testi in francese e inglese, 179 pagine con illustrazioni
Tutti i volumi delle edizioni limitate del Palazzetto Bru Zane, un po' libro un po' cd, sono preziosi, ma questo è un'autentica gemma che ci riconsegna e impone all'attenzione una delle opere più importanti di Fromental Halévy – forse la più importante dopo La juive – scomparsa dai cartelloni da più di centoquarant'anni, La reine de Chypre (1841), basata su soggetto storico assai popolare all'epoca e ben sfruttato anche da Donizetti per la sua Caterina Cornaro (1844).
La veneziana Catarina è costretta a rinunciare all'amore del cavaliere francese Gérard de Coucy per andare in sposa al re di Cipro – pure d'origini francesi – Jacques de Lusignan, ma la Serenissima, non paga d'aver insediato una regina consorte sull'isola, ambisce a controllare direttamente il regno e così avvelena il sovrano. Questi, che aveva stretto con Gérard una leale amicizia, si spegne cedendo il trono a Catarina, per la quale auspica la felicità con l'amato. La nuova regina, il cavaliere francese e il popolo cipriota chiudono l'opera opponendosi fieramente al potere veneziano. Con un pizzico d'orgoglio nazionale, La reine de Chypre è un dramma sentimentale e avventuroso, ma soprattutto politico, ricco di riferimenti anche all'attualità, come ebbero a notare anche i cronisti del tempo, talora rilevando con sdegno alcuni elementi ritenuti perfino blasfemi e anticlericali. Contraltare all'inno finale alla libertà e all'indipendenza è il potere infido e insinuante della Serenissima incarnato da Mocénigo, secondo un topos assai fortunato, che perpetua la leggenda nera di Venezia attraverso drammi come Blanche et Montcassin di Arnaud (da cui Bianca e Falliero di Rossini), Marino Faliero di Delavigne o Angelo, tyran de Padoue, per rimanere in ambito francese.
L'ascolto rivela la qualità della concezione di un grand-opèra che rigetta luoghi comuni convenzionali, primo fra tutti l'obbligo del balletto, per seguire la forza di un intelligente disegno drammaturgico. Ciò traspare già dall'introduzione, affidata all'intimità poetica, e quasi spiazzante per il genere, di un breve recitativo seguito da un'amorosa serenata en coulisse, per non parlare di un'orchestrazione accurata quanto misurata negli effetti, prediligendo gli accostamenti dei legni all'esuberanza degli ottoni. Il giovane Wagner, che curò la redazione della prima riduzione per canto e piano, rimase colpito da queste scelte e in generale fu impressionato dalla partitura, oscillando magari fra ironia e ammirazione, ma certamente mai mostrando indifferenza. Anzi, è curioso notare come sia Wagner sia Berlioz, fra osservazioni ed elogi ben mirati, abbiano amplificato il ruolo storico della Reine de Chypre, attribuendole, per esempio, un uso di temi caratteristici, proto-Leitmotive in realtà presenti non in modo così evidente e pervasivo, perlomeno rispetto ad altre opere coeve. A dispetto della parabola piuttosto effimera delle sue fortune ottocentesche, quest'attenzione risulta, anche nei suoi aspetti contraddittori e ridimensionabili, indicativa della qualità di una partitura che, evidentemente, non poteva passare inosservata e meriterebbe oggi degne riprese. Non dovrebbe mancare l'interesse per qualche stella del panorama internazionale, giacché i nomi dei primi interpreti Rosina Stolz (erede di Cornélie Falcon, prima Léonore nella Favorite), Gilbert Duprez (il mitico inventore del do di petto) e Paul Barrohillet (primo Notthingam, Alphonse IX e Camoëns per Donizetti) dovrebbero bastare ad allettare potenziali eredi e garantire soddisfazioni per gl'interpreti.
In questo caso abbiamo come protagonista Véronique Gens, cui si confà la tessitura anfibia del ruolo permettendole di imporre senza fatica la sua eleganza e la sua competenza stilistica per un'efficace definizione del personaggio e una pregevole tornitura della scrittura di Halévy. Simili considerazioni si possono avanzare per il raffinato Cyrille Dubois, che non trova problemi nello scalare i vertici del pentagramma conferendo a Gérard la giusta appassionata nobiltà, così come nobile risuona il canto baritonale di Etienne Dupuis quale Lusignan. Eric Huchet e Christophoros Stamboglis rendono a dovere, infine, la contrapposizione fra i patrizi veneti Mocénigo e Andrea Cornaro. L'Orchestre de Chambre de Paris e il Flemish Radio Choir offrono una nuova prova di qualità. Esperto di questo repertorio di cui è appassionato cultore, forte del rigore e della curiosità delle sue origini barocche, Hervé Niquet è una guida consapevole nel seguire le ragioni del dramma e nel far trasparire le qualità della partitura, che riconosciamo tale e quali i saggi del volume ci permettono di approfondire con un accurato apparato critico e storico. All'ascolto si affianca infatti la lettura e l'una corrobora l'altro, l'uno completa l'altra con l'esperienza concreta e con il riferimento di un'accurata analisi, della ricognizione delle fonti e del lavoro filologico, del contesto e della storia della composizione, dei primi interpreti, dell'accoglienza di pubblico, critica, musicisti.
Un volume prezioso che, si spera, ispirerà qualche importante istituzione a riprendere, finalmente, sulla scena, la sorella minore della Juive.